Al di là della partita

No, non c’entra Mancini

E così, eccoci di nuovo al punto di partenza. Come in un terribile (sportivamente parlando) gioco dell’oca, dopo la sbornia della vittoria agli Europei, la nazionale italiana si ritrova nella stessa condizione del 2017, vale a dire esclusa dalla fase finale di un mondiale.

Una nazionale con quattro titoli di campione del mondo, che aveva saltato una edizione nei sessant’anni precedenti, è ora fuori torneo calcistico più importante per la seconda volta consecutiva.

Un disastro sportivo che colpisce anche i tifosi della compagine azzurra nati dopo il 2000: troppo piccoli per ricordare il trionfo del 2006, queste generazioni del nuovo millennio hanno fin qui assistito a due eliminazioni nei gironi (2014 e 2018) e due non qualificazioni (2018 e appunto 2022).

Il calcio è episodico, si sa (e noi già lo ce ne eravamo accorti con i due rigori decisivi sbagliati da Jorginho nel corso delle qualificazioni) e lo ha confermato nella notte di Palermo contro la Macedonia del Nord, una squadra certamente meno forte della Svezia che ci eliminò dalla fase finale quattro anni fa e contro la quale la formazione azzurra ha prodotto ben 32 tiri, con un indice di pericolosità di 82.

Se poi però andiamo a vedere nel dettaglio, a questa grande produzione offensiva non è corrisposta una adeguata pericolosità, visto che il dato totale degli expected goals (xG) prodotti è di 1.8, vale a dire 0.05 a tiro.

Quattro anni fa l’imputato principale dell’eliminazioni patita dalla nazionale venne identificato in Gian Piero Ventura, accusato di aver presentato una squadra senza idee, troppo difensiva in un 5-3-2 che faceva da contraltare all’eccessivamente spavaldo 4-2-4 col quale l’allora commissario tecnico si era presentato contro la Spagna nella partita decisiva per l’assegnazione della qualificazione diretta a Russia 2018.

Stavolta, per vari motivi, Roberto Mancini è stato se non esentato dal doversi presentare sul virtuale banco degli imputati per la débâcle azzurra quantomeno chiamato in causa in compartecipazione con altri. Altri identificati dal web via via con i vertici federali, i giocatori, l’atteggiamento tattico, etc…

Nel mezzo a questi due fiaschi c’è stato il successo agli Europei. Quella vittoria fu però il frutto episodico di una combinazione di fattori che la devono far valutare appunto come una (felice) eccezione per un movimento che a livello di nazionale ha infilato gli insuccessi mondiali di cui sopra e, a livello di club, non vince un trofeo internazionale dal 2010 (l’anno dell’Inter di Mourinho).

Fra questi ‘fattori’ vanno citati lo straordinario lavoro compiuto da Mancini e dal suo staff con un gruppo di talenti non eccelso (nessun fuoriclasse e senza un attaccante di livello internazionale), l’incapacità offensiva della Spagna (Morata) in semifinale e la decisione rivedibile di Gareth Southgate di arretrare l’Inghilterra pensando a gestire il risultato dopo pochi minuti dall’inizio di una finale dove gli Inglesi erano andati in vantaggio.

L’Italia non ha vinto gli Europei perché era la squadra più forte ma perché era una di quelle che meglio si sono espresse sul campo. E questo grazie al gioco di Mancini.

Si può discutere all’infinito delle pesanti assenze di due protagonisti della trionfale cavalcata estiva come Leonardo Spinazzola e Federico Chiesa (ma con quest’ultimo in campo la nazionale non è riuscita a battere la Svizzera nella partita che avrebbe potuto darci la qualificazione diretta al Qatar) o se le cose sarebbero potute andare diversamente con Zaniolo, Scamacca o Caprari in campo.

Sono tutti argomenti sui quali poter imbastire una discussione che analizzi il momento. Tuttavia, dato che i risultati mancano da anni e che la vittoria in Inghilterra ha soltanto mascherato una situazione già ampiamente compromessa, non sarebbe molto sensato fermarsi al risultato dell’ultima partita (che, anche se vinta, non ci avrebbe comunque mandato nel golfo Persico ma alla finale playoff contro il Portogallo).

Quello che si dovrebbe fare è invece ripensare l’intero sistema calcio.

Partendo dal rapporto con gli altri, intesi come allenatori stranieri, rappresentanti di scuole dalle quali, con umiltà, possiamo imparare qualcosa, a cominciare dai criteri di accesso ai corsi federali per tecnici professionisti che non privilegino solo gli ex calciatori. Continuando col supportare il calcio di base attraverso la creazione di strutture adeguate e ambienti sani che, fin dalla scuola, portino in campo tanti giovani (con la conseguenza di produrre un bacino di talento più ampio dal quale un domani poter attingere) che attualmente sono poco o per niente interessati a praticare questo sport.

Di certo non gridando ai ‘troppi stranieri’ o alla ‘troppa tattica’ (il calcio è uno sport di strategia).

Home page sportiva del Corriere della Sera.

In questo contesto le dimissioni di Mancini, come prima di lui quelle dei vari Lippi, Prandelli, Ventura, finirebbero per essere soltanto la pezza che cerca di coprire un buco più profondo. Col rischio di farci tornare indietro non ad una legittima difesa e contropiede (ben fatta), quanto invece ad un calcio nel quale il talento individuale venga inteso come un messia decontestualizzato che deve risolvere tutti i problemi. Salvo crocifiggerlo se questo non accade…

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