Editoriale

Mancini ha ragione o no?

‹‹In Italia nessun bambino gioca più per strada. Noi giocavamo 3-4 ore per strada e poi andavamo ad allenarci, oggi questo non accade più. Non è un caso se giocatori nascono ancora in quei Paesi, come Uruguay, Argentina o Brasile, dove si gioca ancora molto per strada››.

Con queste dichiarazioni il commissario tecnico della nazionale azzurra, Roberto Mancini, si è espresso sulle difficoltà del calcio italiano nel produrre talenti di livello internazionale.

Che ci sia questo problema, è un fatto assodato e reso più evidente dalle due consecutive mancate qualificazioni per i Mondiali del 2018 in Russia e del 2022 in Qatar. A mancare sono soprattutto una certa tipologia di calciatori, come ad esempio ali in grado di saltare l’uomo, centravanti e anche no.10 di spessore.

Il Paese che un tempo sfornava talenti come Roberto Baggio o Gianfranco Zola fa ora fatica a trovare dei trequarti in grado di imporsi a livello mondiale. Alcune abilità del gioco del calcio stanno scomparendo, in Italia in modo più eclatante. In certi casi si tratta di una evoluzione che va di pari passo con il calcio moderno, sempre più propositivo e offensivo ma anche sempre più attento a proteggere lo spettacolo. In questo senso va la quasi totale sparizione del tackle, del quale erano maestri difensori nostrani come Paolo Maldini e Alessandro Nesta.

In altre situazioni si tratta invece di vere e proprie difficoltà nel produrre determinati tipi di giocate, come nel caso delle situazioni a palla ferma, dei cross o dei dribbling.

Per quanto riguarda punizioni e calci d’angolo, è sempre più difficile trovare calciatori in grado di amministrare bene queste situazioni. Anche qui, prima ogni squadra (comprese le piccole) aveva degli specialisti in grado di battere da fermo e di essere pericolosi in caso di punizione dal limite. Ora si fa fatica a trovare questi specialisti anche nelle grandi squadre.

Per quanto riguarda i cross, ci sono ancora squadre che li utilizzano come arma di rifinitura privilegiata. Se incrociamo i dati Soccerment con quelli Fbref della squadra che ne effettua di più il Serie A (cioè l’Inter di Simone Inzaghi) scopriamo come la percentuale di riuscita sia del 17%. Si tratta dello stesso dato della seconda squadra nella graduatoria dei cross riusciti (Fiorentina). Percentuali non altissime.

E veniamo ai dribbling. Al netto di un cambiamento nel modo con cui i vari provider contano un dribbling riuscito è vero che si fa sempre più fatica a trovare elementi in grado di saltare gli avversari in situazione di 1c1 o anche di inferiorità numerica.

I dati indicano nel Milan (8.6 dribbling a partita), nel Napoli (8.4) e nell’Atalanta (8.4) le squadre che ne effettuano di più a partita, seguite a poca distanza dall’Udinese (8). Non è un caso vedere queste formazioni al vertice, dato che parliamo di compagini che possono contare sui vari Rafael Leão, Khvicha Kvaratskhelia e Jeremy Boga. Tutti e tre nazionali stranieri.

Il primo giocatore offensivo italiano nel ranking del numero di dribbling riusciti prodotto da Soccerment è Mattia Zaccagni (sesto), fra l’altro non convocato da Mancini. Si tratta comunque di dati relativi al campionato italiano e non al livello internazionale. Una possibile motivazione per la scomparsa di esterni alti in grado di saltare l’uomo può forse essere ricercata nella proliferazione dei sistemi 3-5-2 di modello contiano avvenuta nelle ultime stagioni.

Per quanto riguarda invece i no.9 e i numeri 10, non ha giovato loro questa fase storica nella quale ad alto livello fra le nostre squadre scarseggiano i sistemi con due attaccanti affilati (uno dietro l’altro) o con due punte. Fra le big ad utilizzare due attaccanti centrali c’è solo l’Inter ed entrambi sono stranieri. I centravanti invece pagano una certa propensione dei tecnici a volere attaccanti più di manovra e di movimento che dei finalizzatori puri.

Quanto detto finora riguarda però la mancanza di una certa tipologia di calciatori già pronti alla quale Mancini potrebbe attingere. Il ct ha però parlato della difficoltà generale nel produrre questi calciatori. A mio giudizio qui si deve chiamare in causa anche il tipo di calcio che è andato per la maggiore negli ultimi anni a tutti i livelli, dai più alti fino alle categorie base.

La proliferazione di un calcio posizionale, costruito sul modello dei successi ottenuti dalla Spagna soprattutto a cavallo del primo decennio del nuovo millennio, ha favorito la ricerca di passatori per un modello di gioco che Juanma Lillo ha definito correttamente dostoquismo.

L’ossessione per il controllo della partita tramite sì il controllo della palla, ma soprattutto dello spazio ha finito per produrre una generazione di giocatori in grado di occupare correttamente nei tempi e nei modi giusti determinate zone del terreno di gioco, ma ha finito per impoverirne le capacità associative e la libertà di espressione.

Fra l’altro proprio la Spagna e anche la Germania, due Paesi alfieri del gioco di posizione, stanno riscontrando problemi simili a quelli dell’Italia.

Ovviamente non è colpa di Pep Guardiola e del suo gioco (come troppo spesso erroneamente si sente dire in giro) quanto della volontà di trapiantare un gioco di posizione pensato per livelli altissimi in realtà dove al primo posto dovrebbe esserci la formazione del singolo giovane calciatore.

È vero che c’è una crescente disaffezione dei giovani nei confronti del pallone (per la quale la rincorsa ad un calendario sempre più fitto di partite non sembra l’antidoto migliore) e che esistono al giorno d’oggi tante altre forme di entertainment rispetto a quella di scendere in strada per giocare fino a sera, ma è altrettanto evidente come là dove si dovrebbe costruire il futuro (settori giovanili) si tende invece a copiare i modelli del calcio dei grandi, compromettendo lo sviluppo di alcune qualità essenziali.

Solitamente quando una squadra vince si cerca di emularne il modello. È stato così per il Milan di Arrigo Sacchi e per il Barcellona di Guardiola. L’auspicio è che la recente vittoria mondiale dell’Argentina faccia (ri)scoprire un certo fútbol di scuola sudamericana che mette al centro del contesto la palla e le relazioni fra i giocatori più dello spazio.

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