Ritorno al passato

Come eravamo: la Roma di Luis Enrique

Al giorno d’oggi concetti come fluidità, gioco di posizione, funzione di un giocatore nello scacchiere tattico sono diventati di uso assai comune. La rivoluzione portata da Pep Guardiola ha inciso profondamente nel gioco moderno, sia fra i suoi discepoli (ovviamente) sia fra chi ha cercato di trovare delle contromisure tattiche a questo modello di gioco sia, infine, fra coloro che hanno cercato di prendere qualche spunto dalle idee del tecnico catalano per mischiarle a convinzioni proprie.

Il passaggio di Pep nella storia del gioco quindi, esattamente come quello di Arrigo Sacchi anni prima, ha finito per incidere sull’evoluzione dello stesso come è capitato a pochissimi altri tecnici.

L’allenatore che per primo ha implementato in Italia aspetti di questa moderna fluidità fra le due fasi è riconosciuto essere Paulo Sousa con la Fiorentina 2015/16. Tuttavia, prima di lui un altro tecnico aveva cercato di portare il movimento italiano nel futuro, introducendo concetti di quel juego de posición appreso alla scuola del Barcellona.

Stiamo parlando ovviamente di Luis Enrique con la Roma 2011/12. La storia che segue è quella di una rivoluzione fallita, una delle molte in questo sport, portate avanti da tecnici visionari che si sono trovati a precorrere i tempi in un frangente della storia nel quale questi tempi non erano ancora maturi per un cambiamento.

In un momento importante della storia della Roma, nel mezzo di un passaggio di proprietà che porta James Pallotta alla guida del club, la società giallorossa decide di affidarsi a quella che al momento rappresenta una vera a propria scommessa tecnica: viene infatti scelto come allenatore Luis Enrique, ai tempi reduce da un’unica esperienza in panchina, vale a dire quella con il Barcellona B.

Dalla seconda squadra dei blaugrana direttamente in una piazza importante ed in un contesto esigente come quello romano. Un passaggio già fatto dallo stesso Guardiola (dal Barça B alla prima squadra) e che in quelli anni altri club di Serie A (copycat league) cercheranno invano di replicare (con i vari Ferrara, Stramaccioni…).

Subito definito un Ironman dalla stampa (per l’attenzione alla propria condizione fisica attraverso allenamenti di resistenza), Luis Enrique arriva nella capitale a 41 anni (un giovane della panchina per gli standard nostrani) con uno staff nutrito che presenta anche alcune figure di novità, come ad esempio quella del mental coach o del giovanissimo (24 anni) tattico Robert Moreno, studioso del gioco senza un passato da calciatore professionista ma autore di un libro che aveva colpito il nuovo mister giallorosso.

Anche il preparatore Rafel Pol Cabanellas è giovane (classe 1987) ed è stato scelto da Luis Enrique dopo la lettura di un libro, La preparación física en el futbol. Del gruppo di lavoro fa parte anche Aurelio Andreazzoli, allora ‘solo’ un apprezzato secondo.

‹Praticherò un calcio spettacolare, voglio portare la gente allo stadio›› sono le prime parole di Enrique da giallorosso. Un progetto in linea con le volontà della nuova proprietà americana.

Il 10 giugno 2011 è la data della presentazione ufficiale. Assieme all’asturiano viene presentato anche il nuovo ds Walter Sabatini. «Rivoluzione culturale» è il termine utilizzato da Sabatini per introdurre la scelta di Luis Enrique.

Un cambiamento che si evidenzia fin dal ritiro pre-campionato e che viene subito osservata dagli addetti ai lavori. L’intero ciclo preparatorio si caratterizza infatti per un lavoro fisico subordinato a quello tecnico-tattico (come già fece José Mourinho all’Inter con la periodizzazione tattica) e per un’attenzione alla fase offensiva superiore a quella per la fase difensiva.

L’idea dell’uomo di Gijón è infatti proattiva: essere protagonisti della partita dettandone il contesto sia in possesso (gli arrivi di Miralem Pjanic e Fernando Gago erano funzionali a questa volontà) che cercando una riconquista più alta e più immediata possibile. Tutte novità per il contesto italiano dell’epoca.

I movimenti tattici ricalcano quelli del Barcellona, a partire dal 4-3-3 come sistema di base. In fase di costruzione i terzini si alzano molto mentre viene proposta la salida lavolpiana con il mediano Daniele De Rossi (o, in alternativa, Gago) che si abbassa fra i due centrali difensivi e con questi ultimi che si allargano per costruire una linea a tre che consenta alla squadra di far partire più facilmente l’azione d’attacco.

Le ali tagliavano nel mezzo a supporto dell’attaccante centrale. In questa posizione agiva Francesco Totti, trasformato in no.9 da Luciano Spalletti. Al capitano della Roma Luis Enrique chiedeva di fungere da falso nueve, venendo incontro per aiutare la rifinitura e aprire spazi da attaccare per i compagni.

Un’idea praticata efficacemente con lo stesso Spalletti ma che venne criticata quando riproposta dallo spagnolo. Forse perché, a parte il capitano, la squadra non disponeva di reali alternative in situazione di finalizzazione, nonostante l’esplosione in questo gioco di Fabio Borini e le buone prove di Osvaldo da esterno offensivo. I giovani Lamela e Bojan Krkić avevano invece difficoltà ad adattarsi al gioco proposto.

Così, nella prima parte della stagione la Roma si presentava come una squadra di possesso (media del 60%) che però faticava a creare occasioni da gol. In un football difensivo, reattivo ed estremamente verticale com’era il contesto italiano del tempo, la proposta di Luis Enrique aveva bisogno di tempo per essere implementata. Si sa che Roma non è stata costruita in un giorno ma, di contro, si conosce anche la mancanza di pazienza tipica del calcio nostrano (specialmente a Roma).

Per migliorare l’attacco e la mancanza di profondità, Enrique decide ad un certo punto di alternare il 4-3-3 al 4-3-1-2, anche se le idee rimasero le stesse. E anche i problemi, dovuti in parte alle difficoltà della rosa di adattarsi a quel modello di gioco. Una rosa costruita con molte, troppe, scommesse. Sulle fasce mancavano terzini in grado di dare vero supporto alla manovra, sia sulla corsia sinistra (dove agiva Jose Angel) che su quella destra (con Marco Cassetti e Aleandro Rosi inspiegabilmente preferiti al brasiliano Cicinho); Simone Perrotta e Rodrigo Taddei erano spesso fuori posizione e non riuscivano ad espletare bene i compiti difensivi; De Rossi da play dava alla squadra un miglioramento in costruzione ma la privava di quel centrocampista box-to-box in grado di assicurare  gol pesanti (un problema quest’ultimo che si ripresenterà con la seconda gestione Zeman).

Ma i problemi maggiori erano nella gestione del contropiede avversario, con la Roma che spesso si trovava a difendere in campo aperto soltanto con i due centrali difensivi fra i quali (con Nicolas Burdisso infortunato e con Simon Kjær che fece una stagione disastrosa) l’unico a salvarsi fu Gabriel Heinze. Ma Enrique pagò a caro Prezzo anche la mancanza di maturità di una squadra che mentalmente usciva di partita troppo presto (come accaduto contro Juventus e Lecce).

Così, al termine della stagione e dopo solo un anno dal suo arrivo, amareggiato anche da certe ironie sulle sue qualità da tecnico, Luis Enrique decide di lasciare.

Lo fa in una conferenza stampa dove mostra grande dignità, senza accusare nessuno e senza accampare scuse. L’impressione lasciata dal suo addio è quella di un ambiente non ancora pronto alle evoluzioni e ai fermenti che cominciavano a vedersi da altre parti in Europa. Come detto in apertura, una rivoluzione fallita ma anche, per la Serie A, un’occasione persa per avvicinarsi a queste novità.

Come e più di altri allenatori (Petković, Simeone, Lucescu, Terim) Luis Enrique viene rigettato troppo presto dal nostro calcio per andare poi a mietere successi poco dopo (vedasi i cicli alla guida di Barcellona prima e Spagna poi).

Chi verrà dopo di lui non farà meglio, a dimostrazione di come non fosse Luis Enrique il problema di quella Roma…

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1 comment

  1. Niente di nuovo nel gioco proposto da Luis Enrique, una mera rivisitazione del gioco sviluppato dal coevo Barcellona (a sua volta fondato sul football danubiano classico), incentrato sull’idea di un possesso infinito fatto di passaggi orizzontali prevalenti, un calcio lento e noioso ben più di quello catalano, rispetto al quale pativa l’assenza di finalizzatori trascendenti quanto a qualità offensive. In definitiva, un gioco già largamente superato, altroché futuristico!

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