Correva l’anno 1992. In quella estate (calcisticamente contrassegnata dall’Europeo vinto a sorpresa dalla Danimarca e dalla decisione della FIFA di vietare al portiere di poter raccogliere con le mani un retropassaggio) arriva a Milanello per 10 miliardi di lire il fantasista della Stella Rossa, Dejan Savićević.
Sarà, quello, l’inizio di un rapporto intenso, appassionato, per certi versi anche tormentato fra la compagine rossonera ed il genio (questo il soprannome del giocatore) venuto dal Montenegro.
Una storia segnata da alti (il gol al Barcellona nella finale di coppa Campioni ad Atene l’acuto più importante) e bassi, questi ultimi fondamentalmente legati alle modalità di impiego di Savićević.
A inizio anni ’90 il Milan dominava la scena italiana. Turnover, rosa ampia erano allora concetti innovativi e la squadra di Silvio Berlusconi li applicava con cura. Tanto è vero che quella squadra era dotata di una rosa extra-large che comprendeva anche giocatori come De Napoli, Nava o Gambaro i quali, alla fine, avranno un minutaggio ridotto.
Quella sessione estiva del mercato ’92 è, ancora una volta, particolarmente ricca per il Milan. Oltre a Savićević infatti il club milanese si assicura anche Papin dal Marsiglia e Boban, rientrato da Bari per fine prestito.
Dejan è convinto delle proprie qualità: ‹‹penso che il lavoro di Capello sarà molto impegnativo dovendo gestire una rosa così ampia. Io non mi preoccupo e non credo che ci siano troppi campioni. Sono convinto che tutti avremo lo spazio per raccogliere soddisfazioni. In ogni caso io, come gli altri, avevamo ben chiara la situazione nel momento in cui abbiamo firmato il contratto››.
Il montenegrino guida il Milan estivo mettendo immediatamente in mostra il suo repertorio fatto di dribbling ubriacanti, finte, serpentine e anche gol, incantando col suo sinistro.
I problemi sorgono però con l’inizio della stagione ufficiale e sono essenzialmente due. Il primo riguarda il numero di stranieri utilizzabili fra campo e panchina, che è sempre di tre (e al Milan, oltre a Savićević, Papin e Boban, ci sono ancora gli olandesi). Il che vuol dire che gli altri devono accomodarsi in tribuna.
Il secondo riguardo l’utilizzo tattico del giocatore. Siamo negli anni del 4-4-2 imperante, all’interno del quale i no.10 possono trovare spazio soltanto da seconda punta o da esterni di centrocampo. Savićević quindi viveva la stessa problematica di Roberto Baggio. Il montenegrino finisce così per essere relegato sulla fascia.
Il suo impiego garantiva al Milan qualità nell’1c1 e possibilità di creare facilmente superiorità numerica da quel lato di campo anche se fatalmente toglieva qualcosa in fase difensiva, non essendo l’ex Stella Rossa un centrocampista puro. Lo ha ricordato lo stesso calciatorie: ‹‹non ero uno di quantità, saltavo l’uomo ma non potevo correre come Albertini e Donadoni, avevo bisogno di fermarmi››.
Il Milan di Capello, rispetto a quello di Sacchi, è più pragmatico. Ruba meno l’occhio, ma è quasi impossibile segnargli (nel 1993-94 subirà appena 15 reti in 34 partite di campionato). Don Fabio chiede meno pressing e meno fuorigioco rispetto al suo predecessorema vuole sempre il talento al servizio della squadra. È dunque Savićević che deve adattarsi al contesto e non viceversa. Per questo il mancino di Podgorica soffre e fatica ad inserirsi nei meccanismi di una squadra che veniva da uno scudetto vinto e che comunque riuscirà a confermarsi campione d’Italia (saranno quattro i titoli insieme dal Milan di Capello in cinque stagioni), centrando anche una striscia di dieci vittorie consecutive in coppa Campioni (venendo poi sconfitta dall’Olympique Marsiglia nella finale di Monaco di Baviera).
Savićević gioca poco quell’anno ma le cose cambiano la stagione seguente. Escono Gullit e Rijkaard e il Milan sembra voler ricorrere maggiormente al talento venuto dall’Est. Lo dice chiaramente anche Berlusconi, per il quale il giocatore è sempre stato un pallino: ‹‹puntiamo alla valorizzazione di Boban e Savićević››.
Ma le incomprensioni tattiche con Capello continuano. Ad un certo punto si fa male Simone e Savićević riesce a trovare spazio da seconda punta. Il finale di stagione è in crescendo, fino al trionfo di Atene.
L’ex oggetto misterioso è ora un elemento importante della squadra. La sua presenza aumenta il livello di imprevedibilità offensiva dei rossoneri. Oltre a ciò, il talento montenegrino permette alla squadra di risalire il campo e di alleggerire col possesso la pressione sulla difesa.
La stagione 1994-95 è forse la migliore del Savićević rossonero. Trascina la squadra all’ennesimo titolo e ad un’altra finale di coppa Campioni, persa contro l’Ajax di van Gaal (ma Savićević non c’era, infortunato).
L’anno dopo arriva l’ultimo titolo della gestione Capello, col tecnico friulano che riesce a superare anche il dualismo creato dall’acquisto di Roberto Baggio.
Con la partenza dell’allenatore (direzione Real Madrid) la stella di Savićević si eclissa: due stagioni sottotono con Tabarez e con il Sacchi 2.0 prima di un ritorno di Capello per quella che sarà l’ultima annata a Milano del genio.
A distanza di anni, anche Capello si è dovuto in qualche modo ricredere su Savićević, riconoscendone il grandissimo talento. Talento che è riuscito a mettersi in evidenza nonostante i meccanismi tattici di un calcio più fisico e rigido di quello attuale.

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