Intervista

Intervista a Fabrizio Piccareta

Abbiamo avuto la possibilità di intervistare Fabrizio Piccareta, fra le altre cose ex secondo di Paolo Di Canio ed ex allenatore nel settore giovanile della Roma. Ne è venuta fuori una bella e, speriamo, interessante chiacchierata sulle sue esperienze e, in generale, sul calcio contemporaneo.

Mister, quali sono stati i tuoi inizi in panchina?

Ho iniziato allenando gli allievi regionali nel settore giovanile della Sanremese, squadra nella quale avevo avuto un certo “successo” a livello di calcio dilettantistico. Non ho mai giocato da professionista nonostante i miei trascorsi nel settore giovanile della Sampdoria ma, nel panorama dilettantistico ligure mi ero ritagliato una buona reputazione di centrocampista “pensante”. Smisi di giocare nel 2003 e l’anno successivo la Sanremese mi diede la possibilità di iniziare il mio percorso da allenatore. Mi piace ricordare che in quel gruppo di ragazzi (annata ’89) almeno tre di loro giocarono poi nei professionisti ed uno in particolare, Fabrizio Poli, ha giocato in Serie A con il Carpi ed e’ attualmente uno dei “fuoriquota” della Juventus U23. Successivamente decisi di intraprendere un percorso formativo con FC Internazionale che in quegli anni organizzava dei corsi per allenatori di settore giovanile. Fu un corso della durata di 6 mesi molto interessante con docenti del calibro di Massimo De Paoli, Angelo Pereni, Claudio Gaudino ed il compianto Prof. Varnavà uno dei pionieri della psicologia applicata allo sport.

Grazie a quell’esperienza, entrai a far parte del progetto Inter Campus Estero, realtà molto importante per il club nerazzurro, che mi diede la possibilità di accrescere le mie competenze di campo e linguistiche, cosa che si rivelò determinante nel prosieguo della mia carriera. Partecipai al progetto per quasi 5 anni durante i quali, contemporaneamente, feci esperienza da primo allenatore tra Promozione ed Eccellenza ligure. La svolta arrivò nel 2008 anno in cui partecipai al corso UEFA di Coverciano  che ebbi la fortuna di condividere insieme a compagni che successivamente sono diventati allenatori importanti: Di Francesco, Carrera, Semplici, Di Biagio e, tra gli altri, Paolo Di Canio. Fu un esperienza molto importante per me che, provenendo dal mondo dei dilettanti, potevo confrontarmi con chi aveva vissuto il calcio da protagonista ad altissimi livelli. Al termine di quel corso, Paolo Di Canio rimase in contatto con me per poi, nel 2011, propormi di iniziare con lui l’avventura allo Swindon Town in Inghilterra. Cosi’ ebbe inizio la mia carriera da allenatore professionista.

Ci racconti qualcosa dell’esperienza come secondo di Paolo Di Canio? Mi riferisco in particolare al periodo al Sunderland…che tipo di allenatore è Di Canio?

Gli anni con Paolo sono stati intensi ed emozionanti sotto molti punti di vista. Passare dal calcio dilettantistico in Italia al calcio professionistico in Inghilterra fu una sorta di “shock esistenziale” ma riuscii a calarmi immediatamente nella nuova realtà grazie al fatto che già allora parlavo un discreto inglese. Per Paolo era il primo vero incarico da Manager e per me la prima volta da “secondo”, per cui ci volle un po’ di tempo per riuscire a trovare un giusto equilibrio ed un nostro modo di lavorare insieme. Inizialmente ebbi qualche difficoltà perché non capii subito che Paolo era un vero e proprio “animale da campo” e che amava dirigere la seduta di allenamento in tutto e per tutto e, ricordo, ebbi la sensazione di essere un po’ “sottoutilizzato” perché avrei voluto partecipare più attivamente al lavoro settimanale.

Successivamente compresi che Paolo si fidava molto del lavoro che facevo “dietro le quinte” in termini di studio degli avversari e di analisi tattica delle prestazioni della nostra squadra. Sostanzialmente credo che la mia figura, a quei tempi, si avvicinasse molto di più a quella del moderno “match analyst”.

Quell’esperienza mi servì molto, e ancora mi serve, perché anche ora che lavoro come “primo” amo analizzare partite e avversari pur avendo spesso nello staff una figura di supporto da questo punto di vista. Come detto, Paolo era un allenatore molto “hands on”, come dicono gli inglesi, nel senso che amava condurre la seduta e controllare ogni dettaglio anche del lavoro dello staff. Cio’ che mi colpi’ fu la sua dedizione alla fase difensiva della quale, pur essendo lui un ex attaccante, aveva una conoscenza incredibile ed un’attenzione quasi maniacale. Dalla comunicazione verbale tra i difensori alla postura del corpo, ogni piccolo dettaglio per lui era importante e i nostri calciatori ne giovarono molto al punto che, nei due anni a Swindon, fummo sempre la difesa meno battuta del campionato.

Un’altra delle sue grandi qualità era quella di saper leggere le partite e di fare i cambi giusti al momento giusto cosa che, unita all’ottima condizione atletica dei giocatori, ci permise di vincere negli ultimi venti minuti una percentuale altissima di partite. In quegli anni, soprattutto in quelle categorie, i calciatori non erano troppo attenti alla cura personale sia in termini di preparazione fisica e prevenzione degli infortuni e, soprattutto, dal punto di vista dell’alimentazione. Paolo introdusse e convinse i ragazzi a rispettare alcune regole alimentari che, sebbene poco gradite inizialmente, diedero i loro frutti e permisero a molti giocatori di migliorare le loro prestazioni. L’esperienza di Sunderland fu assolutamente positiva nella prima parte. Arrivammo ad Aprile con la squadra in caduta libera verso la retrocessione e 7 partite da giocare. Paolo ebbe subito un approccio forte con i giocatori, tolse loro ogni alibi e loro si affidarono totalmente a ciò che propose, sia in termini di gioco che di regole. Con una serie di risultati positivi, tra i quali spicca sicuramente il derby vinto a Newcastle, riuscimmo nell’impresa di salvarci ad una giornata dal termine.

La stagione successiva, purtroppo, non iniziò nel migliore dei modi e fummo esonerati dopo appena 5 giornate di campionato. La cosa più frustrante fu realizzare che le stesse cose per le quali Paolo era stato glorificato dalla stampa quando evitammo la retrocessione in Championship (rispetto delle regole, proposta tattica, preparazione atletica) vennero poi usate come “narrazione” di un insuccesso nella stagione successiva. Ancora adesso, ascoltando i suoi commenti tecnici in tv, ritrovo in lui quella passione per i dettagli tattici, soprattutto quelli di tattica individuale, che erano la sua forza anche da allenatore.

Come è iniziato e come è stato il tuo passaggio dal ruolo di secondo a quello di primo allenatore?

Dopo un anno e mezzo di attesa per capire se saremmo tornati ad allenare, mi fu offerta la possibilità di entrare nello staff tecnico di un club portoghese di seconda divisione, l’Olhanense, insieme ad altri italiani. Anche in quel caso si trattava di subentrare in una situazione di difficoltà, con la squadra sull’orlo della retrocessione ed anche in quel caso raggiungemmo l’obbiettivo salvezza. Era una situazione particolare, uno staff messo insieme in pochi giorni, con ruoli non ben definiti ma che, alla luce dei fatti, si rivelò vincente grazie alla professionalità di tutti coloro che ne facevano parte. Il mio definitivo passaggio da secondo a primo allenatore avvenne in Finlandia, all’Inter Turku, club di Veikkausliiga (la serie A finlandese). In quel periodo frequentavo il corso UEFA PRO in Scozia e tra i miei compagni di corso c’era un ex calciatore bosniaco naturalizzato finlandese, Shefki Kuqi, al quale venne affidata la panchina del club e mi propose di seguirlo come vice.

Dopo qualche mese, lui si dimise per motivi personali e la proprietà mi propose di diventare primo allenatore, cosa che accettai. Il primo anno raggiungemmo una salvezza tranquilla e rinnovai per la stagione successiva nella quale vincemmo la Coppa di Finlandia battendo HJK, squadra della capitale Helsinki, nel loro stadio. Per l’Inter Turku fu il primo successo dopo quasi 10 anni e mi onora essere il primo (e per ora unico) allenatore italiano ad aver raggiunto quell’obbiettivo. Pochi giorni dopo questo successo, un po’ inattesa, mi arrivò una telefonata da Roma e mi venne offerta la panchina dell’Under 17. Nonostante in Finlandia io e la mia famiglia stessimo molto bene, decisi che la proposta da parte di un club dell’importanza della Roma non poteva essere rifiutata e decisi di accettarla anche per la voglia di tornare a lavorare in Italia dopo molti anni.

Nel periodo alla Roma hai costruito una squadra di 2002 con un attacco stratosferico…che ricordi hai del periodo trascorso a Trigoria?

Arrivai alla Roma nel 2018 e mi venne affidato il gruppo dei 2002 che l’anno precedente aveva raggiunto la semifinale scudetto, perdendola, contro l’Inter. Un gruppo di grandissima qualità. Fin dai primi allenamenti mi resi conto che questi ragazzi avevano talmente tanto talento che, per quanto mi riguardava, dovevo solo fare in modo che la mia proposta metodologica ed il modello di gioco proposto permettessero loro di esprimerlo appieno. Era un gruppo molto affiatato, quasi tutti ragazzi di Roma, cresciuti a Trigoria fin da piccoli ed orgogliosi della maglia che indossavano. Competitivi tra loro in ogni allenamento ma compatti contro gli avversari in gara. Un piacere allenarli.

Oltre ai ragazzi più “celebrati” di quel gruppo come Bove, Cancellieri, Zalewski, Boer, Ciervo, Tripi, Milanese, Agostinelli, che hanno già avuto modo di evidenza a livello di prima squadra, mi piace ricordare anche coloro che, per il momento, non sono ancora sotto le luci della ribalta ma che al quel gruppo hanno dato tantissimo: Astrologo, Buttaro, Tomassini, Trovato, Muteba, Suffer, Ciucci, Morichelli e altri che si stanno facendo strada nelle categorie inferiori. Tutti loro furono protagonisti di una stagione terminata con la sconfitta in finale scudetto, ancora una volta contro l’Inter, con una fase a gironi conclusa con la bellezza di 126 goal segnati in 24 partite. Un record difficilmente battibile. 

In giallorosso hai allenato Bove e Zalewski, che recentemente si sono messi in evidenza con la prima squadra. Cosa pensi dei due ragazzi in questione (personalmente, tecnicamente, tatticamente)?

Bove e Zalewski sono ormai in pianta stabile calciatori della prima squadra e gia’ con Fonseca ed ora con Mourinho hanno avuto e hanno la possibilita’ di imparare da due tra gli allenatori piu’ importanti nel panorama mondiale. Bove e’ un centrocampista moderno, completo. Per me perfetto da mezzala destra in un centrocampo a tre. Dal punto di vista atletico ha forza e resistenza. Tatticamente ha un’intelligenza superiore alla media, fa bene entrambe le fasi ed ha il senso del goal di un attaccante. Dal punto di vista tecnico non “colpisce l’occhio” ma ha quella che io chiamo “funzionalita’ tecnica”, che e’ la piu’ importante, ossia la capacita’ di scegliere sempre il gesto tecnico adatto in funzione della situazione. Ne e’ il perfetto esempio il goal segnato contro il Verona, il suo primo in serie A: tiro violento di collo pieno sul palo del portiere che si preparava al cross sul secondo palo. Percezione del contesto e gesto tecnico al servizio della situazione. Lo ricordo come uno dei leaders riconosciuti dal gruppo per la sua mentalita’ vincente e combattiva. Ragazzo educato da una famiglia di persone perbene, studioso e con valori importanti. 

Bove con Mourinho.

Zalewski e’ un giocatore diverso, magari un po’ meno continuo di Bove ma con una tecnica individuale superiore che gli permette di compensare una struttura fisica ancora un po’ leggera. Ha un primo controllo fantastico con il quale, spesso, riesce già a saltare il diretto avversario ed un tiro forte e preciso. Ha forte personalità anche se, a volte, si incupiva quando non gli riuscivano le giocate ma questo risale ai suoi 17 anni.

Zalewski.

In prima squadra l’ho visto molto applicato anche in fase di non possesso il che dice molto sulla sua maturazione anche dal punto di vista caratteriale. Anche lui dotato di un’intelligenza tattica che gli permette di trovare sempre la giusta posizione in campo sia da mezzala che da esterno alto a sinistra o trequartista. 

Veniamo al campo. Quali sono i principi del tuo modello di gioco?

Io intendo il modello di gioco come l’insieme dei comportamenti individuali richiesti ai giocatori in un determinato contesto. Ma va fatta una distinzione sulle finalità che deve avere il modello di gioco a seconda che si parli di settore giovanile o prime squadre. Nel settore giovanile ritengo che il modello di gioco debba essere una sorta di “ambiente di apprendimento” all’interno del quale ogni ragazzo possa trovare gli strumenti tattico/tecnici per sviluppare le proprie abilità. E’ compito dell’allenatore costruire questo ambiente “offrendo” ai ragazzi un modello di gioco che ne possa esaltarne le potenzialità. L’esempio e’ la Roma U17 dei 2002: la mia priorità fu quella di proporre un modello di gioco che permettesse loro di esprimere appieno le loro caratteristiche: costruzione dal basso, palla sempre a terra, riaggressioni veloci, libertà di movimento e poche limitazioni alle iniziative individuali.

In una prima squadra, al contrario, credo che siano i giocatori, ormai evoluti tatticamente, a doversi “mettere a disposizione” del modello di gioco. L’esempio classico sono le squadre di De Zerbi: i giocatori si muovono ed interpretano chiaramente un “disegno tattico” voluto e proposto dall’allenatore. In questo caso, ovviamente, maggiore e’ la corrispondenza tra caratteristiche individuali e modello di gioco e maggiore sarà la riuscita del progetto. Restando al modello di gioco di De Zerbi, direi che Marlon e’ il calciatore che più di ogni altro esemplifica questo concetto. Sa esattamente come interpretare in campo l’idea del suo allenatore e, cosa non secondaria, sa trasmetterlo anche ai compagni. Per la mia esperienza sia con gli adulti che con i giovani, credo che il comune denominatore sia comunque e sempre la capacità di far capire ai giocatori alcuni principi fondamentali che, aldilà del modello di gioco, non cambiano mai. La capacità di percepire tempi e spazi di gioco, la comunicazione, riconoscere ed interpretare individualmente e collettivamente i momenti di transizione. Si tratta poi di “utilizzare” questi concetti dentro il modello di gioco scelto e far si che i comportamenti dei calciatori siano “coerenti” al modello stesso nelle varie fasi di gioco. 

Molti allenatori ritengono che sia necessario del tempo per insegnare la propria idea di calcio mentre altri, al contrario, pensano che quella del tempo sia in qualche modo una scusante, un mettere le mani avanti…qual è la tua posizione in merito?

Anni fa Jose’ Mourinho, nel suo libro “Questione di metodo”, poneva esattamente la stessa considerazione, sostenendo che l’allenatore che “chiede tempo” per introdurre le proprie idee sta cercando alibi e che, al contrario, non c’e’ bisogno di molto tempo per dare un’identità alla propria squadra. Ancora una volta credo che si debba distinguere il lavoro con i giovani da quello con gli adulti ma, in linea generale, sono d’accordo con l’affermazione del portoghese. Tutto sta nella capacità da parte dell’allenatore di trasferire la propria idea di calcio ai giocatori, attraverso una comunicazione chiara ed una metodologia di allenamento coerente con ciò che si vuole ottenere. In questo senso, per quanto mi riguarda, tendo da subito ad allenare il modello di gioco in tutte le sue dinamiche e faccio in modo che le mie sedute di allenamento abbiano sempre come base principale ciò che poi voglio ritrovare in partita.

Non amo molto le esercitazioni slegate dal contesto od il lavoro analitico perché credo che, come dice il Prof. Riccardo Capanna, e’ solo attraverso la creazione del contesto che si da modo ai calciatori di “riconoscere” e quindi “agire in modo coerente allo scopo”. Un esempio? Se lavoro sulla fase di possesso, non interrompo mai l’azione se la palla viene persa perché voglio che i miei giocatori si abituino a risolvere la situazione “perdita della palla” ed agire di conseguenza. E a mio parere l’unico modo per lavorare sulle transizioni, positive o negative che siano, e’ quello di ricreare situazioni di gara senza artifici. Tornando alla prima questione, ancora una volta penso a De Zerbi: ho visto il video della prima amichevole giocata dallo Shakhtar Donetsk, in preparazione. Sembrava già una squadra consapevole di ciò che doveva fare, soprattutto in fase di possesso. Questo dice molto sulla sua abilità comunicativa e metodologica ma, soprattutto, sulla sua capacità di convincere i propri giocatori della bontà del modello di gioco. Come ha detto Jorge Valdano, l’allenatore deve saper “sedurre” i giocatori con le proprie idee. Non sempre ci si riesce ma quando lo si fa, e’ una grande soddisfazione per un allenatore.

Quali esercitazioni prediligi per impiantare il tuo modello in un gruppo nuovo?

Come ho detto, mi piace che il lavoro tattico sia subito orientato all’acquisizione dei principi del modello di gioco da parte dei giocatori. Per fare questo ho bisogno che le mie proposte siano simili o uguali alla realta’ del gioco la quale, per definizione, e’ imprevedibile. Per questo motivo anche quando il “focus” e’ su un principio in particolare, non trascuro di effettuare correzioni o rinforzi positivi anche su cio’ che accade al di fuori dell’obbiettivo del momento. L’esempio di prima e’ calzante: la fase di possesso non puo’ essere disgiunta dalla possibilita’ che il possesso non vada a buon fine (cosa che peraltro succede nella maggior parte dei casi, a tutti i livelli) e quel punto il focus si sposta sulla gestione della transizione negativa. Una cosa che faccio con i gruppi nuovi, all’inizio, e’ lavorare molto sul comportamento individuale e collettivo in transizione negativa in modo tale che i giocatori si allenino a non subire conseguenze a seguito della perdita palla. Cosi’ facendo, acquisiranno piu’ sicurezza nel possesso stesso, consapevoli che perdere palla e’ un evento realistico, frequente ma anche gestibile nel modo giusto. In linea generale il lavoro tattico collettivo non riesco a “scomporlo” perche’, citando ancora Riccardo Capanna, il gioco del calcio non e’ un mobile dell’IKEA e la complessita’ va tenuta in considerazione essendo ogni elemento del gioco strettamente connesso a tutti gli altri. Per questo motivo preferisco creare un “ambiente di apprendimento” all’interno del quale io possa lavorare sulle situazioni che “accadono” in maniera spontanea piuttosto che ricrearle in maniera artificiosa poiche’, credo, l’imprevedibilita’ e’ un altro elemento predominante in ogni sport di situazione ed eliminarla dalla seduta tattica significherebbe impoverirla. 

Per lavorare sulla tattica individuale e la tecnica, utilizzo alcune esercitazioni che, pur non essendo strettamente correlate alla realtà del gioco, contengono elementi che aiutano i giocatori ad acquisire principi utili in gara. Parlo di partite a tema, possessi palla e rondo con diverse regole, spazi e numeri di giocatori ma che stimolino i ragazzi a capire concetti di spazi e tempi di gioco, smarcamento, reattività e lettura delle situazioni. Come ho detto, non amo le esercitazioni analitiche tecniche nemmeno nell’attivazione. 

Le tue proposte variano da settimana a settimana? Come è organizzato il tuo microciclo tipo, da partita a partita?

Come tutti, all’inizio della mia carriera da allenatore, volevo “inventare” esercitazioni nuove, introdurre regole, colori, paletti, porticine, ecc. temendo che la ripetitivita’ delle proposte annoiasse i giocatori. Con il passare degli anni, invece, ho capito che alcune esercitazioni possono essere riproposte anche settimanalmente perche’ diventano una routine che i calciatori riconoscono ed utilizzano per il loro miglioramento. In sostanza cerco di far si che i ragazzi migliorino all’interno della stessa esercitazione, riproponendola spesso, piuttosto che cambiare ogni volta la struttura cosa che, dal punto di vista del giocatore, puo’ anche confondere e far perdere loro naturalezza. Sostanzialmente la mia seduta inizia con una messa in azione da parte del preparatore atletico alla quale segue un’attivazione tecnica (solitamente rondo o possesso di varie forme).

Dopodiché il cuore della seduta, il lavoro tattico collettivo il quale, come detto prima, ha sempre carattere realistico. Che sia un 11vs11 o forme ridotte (8 vs 6, 10 vs 7, etc.) c’e’ sempre una contrapposizione reale ed attiva da parte di ogni giocatore. Al termine una partita a tema. Extra seduta i giocatori che lo desiderano possono fermarsi a praticare individualmente su alcuni fondamentali. Il microciclo settimanale si struttura sulla ricerca del miglioramento delle varie fasi del modello di gioco, sulla falsariga della “periodizzazione tattica”, in modo che ogni giorno ci sia un focus su una fase specifica ma, come già detto, senza tralasciare gli eventi “emergenti” durante la seduta. Quindi, per semplificare, la struttura della settimana può essere questa:

Giorno 1: Fase di Possesso in zona 1 (costruzione da rimessa dal fondo) + Transizione negativa

Qui l’attenzione e’ sulla fase di prima costruzione con l’obbiettivo di eludere il pressing alto degli avversari ed avanzare con la palla. Ovviamente si lavora sulla possibilita’ che gli avversari conquistino il possesso in questa zona ed i comportamenti adeguati all situazione

Giorno 2: Fase di Non Possesso (blocco difensivo medio/basso) + Transizione positiva

Il lavoro e’ orientato all’acquisizione dei principi difensivi collettivi ed individuali in una situazione di difesa piu’ bassa e la gestione della transizione positiva che ne puo’ seguire

Giorno 3: Fase di Possesso (Preparazione alla finalizzazione) + Transizione negativa

In questo caso la fase di possesso e’ orientata alla creazione delle condizioni utili alla finalizzazione per cui si svolge in una zona di campo piu’ avanzata e, conseguentemente, si lavora anche sulla transizione negativa che ne puo’ risultare

Giorno 4: Fase di Non Possesso (Pressing alto sulla prima costruzione avversaria) + Transizione Positiva

Qui la fase difensiva ha come obbiettivo la messa sotto pressione degli avversari nella loro prima costruzione e le opzioni risultanti dal successo della nostra azione in quella zona di campo.

Giorno 5: Preparazione Tattica Specifica per la gara

Solitamente, a livello di prima squadra o fasce giovanili nelle quali si lavori gia’ sull’avversario, dedico questa seduta alla preparazione specifica contro l’avversario di turno, in modo che ci siano quegli adattamenti particolari alle situazioni tattiche che dovremo affrontare.

Giorno 6: Preparazione Tattica Specifica per la gara + Palle Inattive

La classica “rifinitura” dove richiamo ancora alcuni concetti specifici da mettere in pratica contro il prossimo avversario e la preparazione dei calci piazzati.

Come si può evincere dalla struttura settimanale, mi piace molto lavorare sul modello di gioco della mia squadra in modo tale che diventi un “patrimonio condiviso” e che possa costituire una sorta di “guida” per i giocatori durante la gara.

Quale è l’idea alla base delle tue due fasi, offensiva e difensiva?

 Alla base dei principi in fase di possesso, nel mio modello di gioco, l’idea di fondo e’ quella di gestire il possesso con l’intenzione di “portare” la palla in zona di rifinitura attraverso un gioco molto posizionale ed un palleggio che permetta di portare molti giocatori nella meta’ campo avversaria. Credo che il vero “dominio” di una squadra lo si ritrovi quando questa riesce a mantenere la palla “dentro al campo” perché a mio parere e’ più difficile per l’avversario dare pressione al portatore palla. Forse più rischioso ma sicuramente più efficace. Il possesso dev’essere “verticale” ossia poco giro palla da un lato all’altro del campo ma, al contrario, la ricerca di passaggi a tagliare fuori linee di pressione per poi creare situazioni di palla scoperta per il giocatore che riceve tra le linee e a quel punto attaccare velocemente le spalle della linea difensiva avversaria. La fase difensiva, pur mantenendo alla base l’idea di pressione forte sul portatore palla avversario, può dipendere molto di più dall’avversario di turno e le sue caratteristiche. Mi interessa comunque difendere la zona più interna del campo e costringere gli avversari a portare palla sulle zone esterne dove, a mio avviso, si può difendere meglio.

Quale è il tuo rapporto con la sconfitta e come andrebbe gestita da un tecnico?

Non ho un buon rapporto con la sconfitta perché tendo a non cercare alibi e, di conseguenza, non mi “alleggerisco” subito dal peso di un risultato negativo. Questo però mi e’ servito a migliorare perché dopo un risultato negativo (od una prestazione negativa) la prima cosa a cui penso e’ cosa potevo fare meglio io per impedire che questo accadesse. Mi e’ sempre piaciuta la considerazione che Marcelo Bielsa fa della sconfitta, ossia che essa ci riavvicina alle nostre convinzioni. Credo in questo: se si riesce a mantenere una propria linea nonostante le sconfitte, significa credere in ciò che si fa. Sempre Bielsa ha detto che l’allenatore (e la squadra) va valutata per ciò che meritava piuttosto che per ciò che ha ottenuto. Ne ho fatto tesoro nella finale scudetto Under 17 lo scorso anno quando, a fine primo tempo, eravamo in vantaggio per uno a zero ma a mio avviso non meritandolo. Il risultato ci vedeva condurre ma in realtà il campo stava dicendo qualcosa di diverso ossia che l’avversario stava giocando meglio. Per questo motivo a fine primo tempo cambiai addirittura tre giocatori e la squadra riprese a giocare con più efficacia, vincendo la partita e, a questo punto, meritando di farlo.

Si dice che l’allenatore debba dare certezze e conoscenze al proprio gruppo squadra ma, in realtà, l’imprevedibilità del gioco è tale che non si può mai arrivare ad un totale controllo della partita. Quale è il tuo pensiero su questi due aspetti che convivono in una partita (certezza e imprevedibilità)?

Il calcio e’ “il re” degli sport situazionali e di conseguenza l’imprevedibilità e’ un elemento imprescindibile nel gioco e non si può non tenerne conto. Come allenatori, attraverso il lavoro settimanale, dobbiamo dare ai nostri giocatori gli strumenti per “orientarsi” in questa imprevedibilità ma soprattutto fare si che essa sia ridotta al minimo. Ancora una volta lo si può fare attraverso un modello di gioco che sia da “guida” senza essere troppo vincolante. Lasciare libertà ai calciatori di interpretare la situazione non significa non dar loro delle indicazioni ma sapere che le variabili sono infinite e, appunto, imprevedibili. Ecco che e’ importante nel lavoro coi giovani non fossilizzarsi su soluzioni di gioco preconfezionate, schemi rigidi, automatismi che tolgono la capacità di fare la scelta giusta o adattarsi velocemente ad un evento non previsto. E’ per questo motivo che nella mia metodologia non c’e’ spazio per “partite ombra”, “11 contro 0” o situazioni tattiche con avversari “semi attivi” o addirittura passivi. La presenza dell’avversario e’ ciò che condiziona le nostre scelte e non si può pensare di eliminarlo dal contesto. Quindi il modello di gioco non e’ un insieme di “schemi” o “movimenti” sul campo bensì una sorta di “regole di comportamento tattico” a cui i calciatori fanno riferimento nelle diverse fasi di gioco. Un esempio: se il nostro modello di gioco prevede che alla perdita del possesso nella meta’ campo avversaria si debba andare ad una riconquista immediata, ecco che tutti i giocatori avranno l’obbiettivo “riconquista” come elemento comune di comportamento. 

Nel calcio moderno l’allenatore non può più fare tutto da solo o con uno staff ridotto. In questo senso, altre figure di collaboratori stanno emergendo (penso ai match analyst ma non solo). Secondo te fino a dove si potrò spingere questo allargamento degli staff tecnici e, idealmente, di quante persone dovrebbe essere composto il tuo?

Come ogni altra cosa, anche il calcio si evolve e rispetto a soltanto una decina di anni fa, gli staff si stanno ingrandendo anche nelle realtà minori, figuriamoci ad alti livelli. Le rose aumentano di numero e la necessità di avere più figure professionali che collaborano con l’allenatore e’ un’evidenza. Io ritengo comunque che l’allenatore debba avvalersi di almeno due figure che, possibilmente, non dovrebbero mai cambiare ossia il vice ed il preparatore atletico. A mio parere queste due figure professionali sono le più importanti in quanto sono coloro che devono condividere con il mister la stessa filosofia di lavoro. Personalmente ritengo che la figura del match analyst possa essere di supporto all’allenatore ma non necessariamente far parte di uno staff permanente ma questa mia convinzione e’ legata alla mia naturale inclinazione ad analizzare personalmente gli avversari così come la mia stessa squadra. 

Ha conseguito la licenza Uefa Pro presso Scottish Football Association che, oltre a tanti e famosi allenatori scozzesi del passato, ha anche contribuito a formare José Mourinho e André Villas-Boas. Cosa ci puoi raccontare di quella esperienza e del livello di quella scuola di allenatori?

Il periodo trascorso in Scozia e’ stato molto formativo per la mia carriera. Avendo conseguito con la federazione scozzese sia la licenza UEFA A che UEFA PRO, ho potuto apprezzare l’altissimo livello didattico. Ovviamente la conoscenza della lingua inglese mi ha permesso di essere coinvolto in maniera attiva nelle varie sessioni del corso. A differenza dei corsi di Coverciano che sono forse più orientati alla “teoria”, in Scozia e’ stato veramente minimo il tempo trascorso nelle aule a favore di una pratica “sul campo” molto formativa. Ho avuto il piacere di condividere questi anni con allenatori scozzesi ed inglesi che hanno poi occupato panchine importanti nel Regno Unito e, prima di me, allenatori di grande successo hanno ottenuto i loro patentini in Scozia: Jose’ Mourinho e’ sicuramente il più importante ma anche Vilas Boas e Nuno Espirito Santo. 

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