«Sarei pazzo se giocassi a zona, avendo in Vierchowod e Mannini i campioni del mondo della marcatura individuale».
Vujadin Boskov
La stagione 1982-83 non è stata soltanto la prima dopo il trionfo Mundial di Spagna e nemmeno solo quella della vittoria in campionato della Roma di Liedholm. No, quel campionato ha infatti anche segnato il ritorno in serie A della Sampdoria di Paolo Mantovani.
Da quella stagione in poi, a furia di colpi di mercato anche clamorosi, il presidente blucerchiato costruirà una squadra in grado di vincere in Italia ed in Europa, fino all’apice che verrà raggiunto con la conquista dello scudetto ’90-91 e con la finale di coppa dei Campioni dell’anno seguente.
Molti articoli hanno ripercorso il come e quando della costruzione nel tempo di quella squadra. Tanti altri hanno rievocato l’importanza di un gruppo straordinario di amici, sottolineando le capacità di leadership dei vari Vialli e Mancini e del tecnico Boskov. Meno invece è stato detto del gioco di quell’undici. La domanda quindi è: come giocava quella Samp? Chi scrive ne dà testimonianza sia a posteriori (dopo la visione di alcune partite) che diretta, avendo vissuto quell’epopea con gli anni sì di un adolescente, ma di uno già attento agli aspetti tattici del gioco.
Qualche anno fa, scherzando ma non troppo, uno dei protagonisti di quella cavalcata, il difensore Moreno Mannini (che finì anche nel giro azzurro di Arrigo Sacchi) descrisse il gioco dei blucerchiati come una sorta di ‘tre passaggi e gol’, sottolineando l’attenzione difensiva che Boskov chiedeva ai suoi difensori per poi, in possesso, giocare velocemente attraverso Toninho Cerezo e raggiungere quanto prima Vialli e Mancini in avanti.
In realtà, pur contenendo una certa dose di verità (si tratta pur sempre di una testimonianza diretta), il calcio praticato dalla Samp aveva anche altre soluzioni (e Cerezo quell’anno collezionò appena 12 presenze in campionato).
Tanto per cominciare, nel mercato estivo post Italia ‘90 era arrivato, oltre al difensore Ivano Bonetti (dal Bologna) e all’attaccante Marco Branca (dall’Udinese), anche l’ucraino Mikhailichenko, centrocampista della Nazionale sovietica e della Dinamo Kiev.
Pur vessato da numerosi infortuni e inserito in calcio meno schematico di quello al quale era abituato, Mikhailichenko segnò comunque 3 reti in stagione (compresa quella nella finale di andata di Supercoppa UEFA contro il Milan), risultando importante in quella squadra, anche se non sempre fu titolare e nonostante una vulgata negativa intorno alla sua esperienza italiana.
Alternandosi con Dossena, Mikhailichenko completava un centrocampo che vedeva come protagonisti anche lo sloveno Srečko Katanec e Fausto Pari. Un trio che comprendeva quindi un box-to-box midfielder (Katanec), un incontrista (Pari) e una mezzala di regia (Mikha/Dossena).
Spesso inquadrata all’interno di un 1-3-4-2 di base, in realtà quella squadra giocava di fatto con un 5-3-2 in possesso, un sistema tipico delle compagini che nel decennio anni ’80 utilizzavano una zona mista con il libero. Di fatto, due o tre marcature a uomo ‘battezzate’ con disposizione a zona per il resto della squadra.
Infatti, in un’epoca nella quale stava imponendosi il sacchismo, la scelta di Boskov fu in controtendenza. Così, davanti a Pagliuca, Luca Pellegrini fungeva da libero dietro i marcatori Vierchowod e Mannini. Bonetti o Lanna (unico genovese nella rosa, utilizzato da libero in assenza di Pellegrini) erano gli stantuffi a sinistra, più difensivi rispetto al loro contraltare a destra, il tornante Attilio Lombardo.
Lanna imposta da libero contro la Juve nel febbraio 1991.
A centrocampo tre fra i sopracitati, con Pari spesso impiegato nella marcatura del centrocampista avversario più pericoloso. Davanti, come detto in apertura, gli iconici Vialli e Mancini.
Fausto Pari contro il Napoli, in marcatura su Maradona.
La Samp era una squadra estremamente verticale, poco dedita al possesso e più orientata a servire immediatamente i due riferimenti offensivi, che si completavano a vicenda. Infatti, mentre Vialli era sì uomo d’area e goleador blucerchiato (nel ‘91 vinse anche la classifica dei cannonieri con 19 gol, nonostante una stagione cominciata ai box per infortunio) ma giocatore abilissimo anche nell’attaccare la profondità (le sue origini sono quelle di attaccante-ala e in tale veste venne convocato da Bearzot per i Mondiali del 1986, dove giocò in tutte e quattro le partite disputate dall’Italia), Mancini era la seconda punta in grado tanto di armare il compagno di reparto (e gli altri che arrivavano da dietro) quanto di concludere l’azione in prima persona (12 le reti realizzate in quel torneo, fra le quali quella meravigliosa segnata al San Paolo di Napoli).
Gli attaccanti blucerchiati, nel campionato scudettato, furono responsabili di ben 31 delle 55 reti realizzate complessivamente dalla squadra di Boskov.
Sia Vialli che Mancini erano in grado di ricevere sul corpo e di difendere palla, guadagnando preziosi calci piazzati o consentendo ai compagni di avere il tempo per risalire il campo. Per supportare i due davanti, più frequentemente degli altri sopraggiungeva Lombardo da destra, zona dalla quale poteva crossare nel mezzo o tagliare centralmente a rimorchio.
From Mancini to Lombardo nel filmato prodotto con VideoMatch di Sics.
In fase difensiva invece la squadra di Boskov non aveva problemi ad effettuare fasi di difesa posizionale bassa, chiudendo soprattutto il centro del campo e concentrandosi nella vittoria dei duelli individuali prefissati o che si formavano nel corso della partita.
In pratica, la Samp scudettata è stata una squadra verticale, che cercava combinazioni offensive veloci e semplici, sfruttando il talento dei giocatori d’attacco e le capacità di difensori e centrocampisti nella gestione degli uno contro uno in non possesso.
Con questa struttura tattica la Samp si laureò campione d’Italia nel 1991 battendo una concorrenza che vedeva in campo squadre come il Napoli campione in carica di Maradona, il Milan campione d’Europa di Arrigo Sacchi, l’Inter di Trapattoni e dei tre tedeschi Brehme, Matthäus e Klinsmann e la Juventus della rivoluzione fallita di Gigi Maifredi che, in estate, aveva comunque comprato Roberto Baggio, Hässler e Julio Cesar.
La partita decisiva, al di là della vittoria sul Lecce (3-0) che sancì la conquista matematica del tricolore, è considerata quella di San Siro nello scontro diretto con l’Inter. Una partita nella quale i nerazzurri del Trap registrarono 24 tiri e batterono 13 calci d’angolo. La Samp? Sei conclusioni (un palo di Lombardo) e un angolo. Pagliuca parò anche un rigore a Matthäus e a Klinsman venne annullato un gol. Il risultato finale fu però di 0-2 per i doriani.
La sfida con l’Inter a San Siro: ogni marcatore segue il suo diretto avversario.
Il resto è storia: da quello scudetto si aprirono le porte per la coppa dei Campioni della stagione seguente, con gli errori di Vialli e il gol di Ronald Koeman nei supplementari della finale. Quella squadra finì lì. Poi arrivarono la cessione dello stesso Vialli alla Juve, la partenza di Boskov per Roma e il declino, fino alla retrocessione del 1999. Rimane comunque la memoria dell’ultima squadra non tradizionalmente ‘grande’ a vincere lo scudetto.