Due anni dopo Diego Maradona, anche l’altro protagonista del calcio del secolo scorso ci lascia. La morte di Pelé non è soltanto la dipartita di quello che molti considerano il calciatore più forte di tutti i tempi, ma anche quello di una figura iconica, che è riuscita ad andare oltre il calcio contribuendo ad allargare i confini del football.
Un giocatore completo: elegante, intelligente, atletico, fortissimo con entrambi i piedi e anche di testa, come ci ricorda l’altrettanto iconica immagine del gol segnato all’Italia nella finale del Mondiale 1970 saltando in testa a Tarcisio Burnich.
Talmente grande è stato O Rei che non bastano i pur straordinari record stabiliti (a cominciare dal fatto di aver vinto per ben tre volte la coppa del mondo) per renderne comprensibile la grandezza. Forse, allora, è sufficiente dire che la maglietta numero 10 ha un valore speciale nel gioco del calcio a partire da quando la indossava Pelé (come nel basket la 23 dopo l’avvento di Michael Jordan).
Il fatto che non abbia mai giocato in Europa non ne scalfisce il mito o il giudizio tecnico. Ai quei tempi il calcio sudamericano di club era infatti di un livello più alto rispetto a quello attuale e performare bene laggiù non significava farlo in un calcio minore. È solo un certo eurocentrismo o non conoscenza storica del futebol degli anni cinquanta e sessanta ad aver fatto scrivere così.
Le numerose partite disputate e vinte dal Santos e dal Brasile contro avversari europei fra tornei e amichevoli (e con quello che si permetteva all’epoca ai difensori è difficile considerarle amichevoli alla stregua di quelle di oggi) sono lì a testimoniare che pochi erano in grado di fermare Pelé.
Alla notizia della morte del fuoriclasse brasiliano, la rete si è ovviamente riempita di ogni genere di contributo. Qui ci piace ricordare Pelé inserito nel contesto del Brasile del 1970, quello che conquistò definitivamente la coppa Rimet dopo aver distrutto l’Italia (4-1) nella finale di Città del Messico.
Durante il periodo preparatorio della Seleção in vista dei mondiali messicani la CBF (la Federcalcio brasiliana) aveva operato dei cambiamenti, primo fra tutti l’allontanamento di João Saldanha dalla panchina della nazionale verdeoro. Saldanha non vedeva bene Pelé (sembra che ne questionasse la vista e l’attitudine difensiva) ed il suo licenziamento, unito alla scelta del vecchio amico e compagno di squadra Mario Zagallo come nuovo commissario tecnico, convinsero Pelé a tornare in verdeoro dopo un periodo di assenza.
Quella che venne assemblata per il Mondiale del 1970 è passata alla storia come la nazionale dei cinque numeri 10. C’erano infatti, oltre a Pelé, Tostão (no.10 del Cruzeiro), Gérson (il 10 del San Paolo), Rivelino (col Corinthians), Jairzinho (del Botafogo), l’uomo chiamato al difficile compito di sostituire Garrincha.
È, quella, una compagine che fin da febbraio comincia la preparazione per il Mondiale, atterrando in Messico ai primi di maggio. Una squadra perfettamente allenata anche dal punto di vista atletico. Responsabile della preparazione fisica dei verdeoro è un giovane assistente di Zagallo, il nemmeno trentenne Carlos Alberto Parreira, futuro commissario tecnico brasiliano e campione del mondo nel 1994 (ancora dopo una finale contro l’Italia e stavolta a ruoli invertiti con Zagallo).
Una squadra, quella brasiliana, che dunque presentava un mix fenomenale di talento e fisicità, quest’ultima necessaria per battagliare con nazionali come Germania, Inghilterra e Uruguay.
Dal punto di vista tattico, i principi ispiratori del Brasile 1970 sono quelli classici della scuola brasiliana: un gioco funzionale fatto di diagonali offensive e di approssimazione verso il portatore di palla, con la squadra in attacco che non deve occupare tutto la larghezza del campo ma creare connessioni in zona palla per facilitare la risalita del campo verso la rete avversaria. Soprattutto, i brasiliani alternano fasi di controllo del gioco tramite il possesso a repentine, formidabili accelerazioni in avanti.
I due terzini, Everaldo e Carlos Alberto, stringono centralmente quando la palla è sul lato opposti di campo e attaccano a tutta fascia quando invece il pallone è dalla loro parte.
In mediana, Gérson e Clodoaldo si alternano come equilibratori mentre gli altri giocatori offensivi avanzano. Sugli esterni, due elementi che venivano a giocare dentro il campo, più vicino agli altri palleggiatori (Rivelino) o più in profondità, da attaccante (Jairzinho).

Il raggruppamento che tocca in sorte al Brasile non è dei più facili, ma i verdeoro riescono a vincere tutte e tre le sfide, contro Romania, Cecoslovacchia e soprattutto Inghilterra, la nazionale campione in carica che aveva vinto in quel torneo disputato in casa quattro prima e nel quale il Brasile aveva pagato la fisicità del gioco europeo e la caccia all’uomo degli avversari su Pelé.
Contro il Perù nei quarti (4-2) O Rei detta legge. Quando si arriva al penultimo atto della manifestazione, con il Brasile che deve affrontare l’Uruguay e con Italia e Germania dall’altra parte del tabellone (in attesa di giocare la partita del secolo) si sa già che chiunque trionferà si porterà definitivamente a casa la coppa Rimet, spettante di diritto alla prima nazionale a vincere per tre volte il torneo. Tutte e quattro le squadre rimaste vantano infatti due trionfi a testa.
Il Brasile si impone nella sfida tutta sudamericana contro la Celeste (3-1) e Pelé lascia ancora il suo marchio, anche senza segnare. Come dimenticare infatti la finta sul portiere uruguaiano in uscita, Ladislao Mazurkiewicz, in occasione di quello che può essere definito il più grande quasi gol della storia del calcio?
In finale, ad aspettare Pelé e compagni c’è l’Italia. Una partita di quelle che si tramandano di padre in figlio, di nonno in nipote e che sono state rivalutate solo diversi anni dopo, con gli Azzurri accolti al ritorno da una valanga di critiche per la sola ‘colpa’ di essere arrivati secondi dietro uno squadrone (chissà, forse un giorno riusciremo fare un’opera di corretta revisione storica anche del secondo posto del 1994). Di quella sfida e di un’Italia arrivata stanca dopo i supplementari affrontati con la Germania, così come del dualismo fra Sandro Mazzola e Gianni Rivera, è stato già scritto tutto.

Qui ricordiamo solo il quarto gol brasiliano, quello di Carlos Alberto Torres, frutto non soltanto di un’apertura eccezionale di O Rei, ma arrivato al termine di una manovra corale paradigmatica del modello di gioco del Brasile.
L’azione nasce infatti in fascia sinistra, dopo una riconquista palla. Clodoaldo supera tre italiani e passa a Rivelino, che lancia Jairzinho spostato sulla fascia sinistra. Il giocatore del Botafogo serve Pelé in zona centrale e quest’ultimo propone poi l’assist per il gol di Carlos Alberto. Gerson, Clodoaldo, Rivelino, Jairzinho, Tostão e Pelé hanno tutti occupato le zone di sinistra e centrali del campo. Il lato destro, dove arriva Carlos Alberto, è completamente svuotato prima che a riempirlo giunga appunto il terzino compagno di squadra di Pelé nel Santos.
Una sequenza offensiva di ventinove secondi rimasta nella storia e che certifica la superiorità di quel Brasile. Forse il Pelé di quel Mondiale non è stata la versione più grande di O Rei. Però il Brasile del 1970 è stata certamente una delle squadre più forti di tutti i tempi.
Dopo sono arrivati i New York Cosmos, l’America, Fuga per la vittoria…attore, intrattenitore, cantante. Soprattutto però un calciatore. Questo era Pelé. Non un politico (anche se nominato ministro straordinario dello sport nel 1995, carica che mantenne per tre anni). Ciò gli permetterà di essere sempre dentro al sistema calcio e non di giocare mai contro, facendo il rebelde come Maradona. E per questo motivo si è sempre presentato Pelé come il buono, dentro e fuori dal campo, da contrapporre al cattivo Maradona, con i suoi sbagli, i suoi errori ed il suo gol di mano all’Inghilterra. Una contrapposizione forse vera, forse costruita. Ora comunque ci piace immaginarli così, come in questo video riesumato dal web.
Il Re è morto, viva il Re.

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