Le parole di Max Allegri riguardanti la fase di costruzione del Manchester City, contenute nell’intervista a GQ, hanno riproposto la questione relativa alla percezione che in genere si ha della squadra e del calcio di Pep Guardiola anche da parte di alcuni addetti ai lavori.
In questo senso, la suddetta intervista fa il paio con quella concessa da Aymeric Laporte al Guardian nella quale il difensore spagnolo accenna all’unicità del gioco dei citizens, affermando che ‹‹il calcio che giochiamo noi non lo gioca nessun altro nel mondo››.
Con questo approccio il City ha vinto 10 trofei nelle ultime quattro stagioni. Eppure, ogni volta che la squadra di Pep vince qualcosa si leggono analisi che attribuiscono questi successi esclusivamente alla quantità di soldi spesi dal club per le campagne acquisti condotte sotto il tecnico catalano.
Un ragionamento che può funzionare appunto quando il City vince ma che non spiega invece come mai in altre occasioni la squadra di Guardiola sia uscita sconfitta (come ad esempio nell’ultima finale di Champions).
Di contro, proprio riguardo le sconfitte, queste ultime vengono accolte con soddisfazione dagli stessi critici, che stavolta le attribuiscono al gioco troppo filosofico praticato dagli Inglesi.
In pratica, le vittorie del City sono da attribuire al livello della rosa mentre le sconfitte ricadono sulle spalle del gioco di Guardiola.
Appare evidente il cortocircuito logico. A questo ne fa seguito un altro, sempre riportato da Laporte: ‹‹abbiamo la miglior difesa e ancora la gente questiona la nostra fase difensiva››.
In effetti, guardando i dati il ‘rischioso’ calcio di Guardiola sta permettendo al City di essere appunto la miglior difesa della Premier sia in termini di gol subiti (18, uno in meno del Chelsea) che di expected goals against (19.66).
Siamo sicuri che giocatori come Laporte o Rúben Dias produrrebbero gli stessi dati in un altro sistema difensivo?
Il 51enne catalano ha inoltre avuto la miglior difesa del campionato (fra Spagna, Germania e Inghilterra) in nove delle dieci stagioni nelle quali ha vinto il titolo.
La sensazione è che le critiche al calcio di Guardiola (legittime sul piano estetico o su quello della teorica replicabilità altrove) abbiano assunto i termini di una sorta di guerra di religione nella quale gli oppositori non perdono occasione per minimizzare i meriti del tecnico.
Questa posizione può forse essere attribuita alla complessità del modello di gioco proposto dall’ex allenatore del Barcellona. In ogni attività umana (dalla letteratura all’arte, da un gioco di società all’argomento di una qualsiasi lezione teorica) esistono diversi gradi di complessità.
Chiunque può leggere Così parlò Zarathustra ma un laureato in filosofia con tesi su Nietzsche lo saprà interpretare meglio di un liceale al quinto anno, cogliendone sfumature diverse. La stessa cosa vale per lo sport.
Nel calcio la complessità sembra spaventare alcuni, perché costringe a pensare fuori dai canoni tradizionali (think different diceva la pubblicità). È la stessa cosa che accade in Italia quando arriva un tecnico straniero.
Questo riduzionismo calcistico finisce però per far scadere ogni discussione in banali semplificazioni che non solo non aiutano il dibattito (e la diffusione del sapere) ma finiscono anche per rischiare di far apparire desuete quelle posizioni tradizionali che invece conservano ancora la loro dignità e importanza.

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