Uno dei migliori tecnici del panorama calcistico italiano, Luciano Spalletti ha sulle spalle una carriera più che ventennale in panchina, cominciata ad Empoli nel 1994.
Eppure, come capita a tutti nello svolgimento di questa professione, anche Spalletti ha dovuto affrontare dei periodi negativi. In particolare, il periodo immediatamente successivo al distacco dal club toscano (nel 1998) è stato avaro di soddisfazioni per lui. Infatti, il tecnico di Certaldo non riuscì ad evitare la retrocessione della Samp al termine della stagione 1998-99 (alla quale contribuì notevolmente l’infruttuoso interregno della coppia Platt- Veneri) mentre, in quella successiva, venne esonerato due volte da Zamparini al Venezia.
Spalletti alla Samp con Ariel Ortega.
Le annate seguenti lo videro condurre in porto la salvezza dell’Udinese nel 2001 e quella dell’Ancona (in serie B) nel 2002.
In pratica, nel quadriennio compreso fra il 1998 e il 2002 la carriera di Spalletti sembrava aver preso una china che difficilmente lasciava presagire i successi delle annate seguenti, infarcita com’era di sconfitte, esoneri o subentri a campionato in corsa e di progetti tecnici non eccezionali da parte dei club dove ebbe a lavorare.
Tuttavia, il buon lavoro fatto a Udine gli guadagna un’altra chiamata da parte della famiglia Pozzo, stavolta per partire dall’inizio, all’alba della stagione 2002-03. È la svolta: con l’opportunità di poter mostrare le proprie qualità fin dal pre-campionato in un ambiente favorevole, Spalletti conduce i friulani a due piazzamenti Uefa (2003 e 2004) ai quali fa seguito l’accesso alla Champions League conquistato con il quarto posto ottenuto al termine del torneo 2004-05. Il resto è storia recente (Roma due volte, Zenit, Inter).
Durante quel fondamentale triennio friulano, Spalletti mette in mostra un gioco brillante ed efficace, contribuendo allo sviluppo di giocatori come Pizarro, Jankulovski, Iaquinta, Di Michele, Di Natale e Jorgensen.
Dal punto di vista tattico, la sua Udinese si caratterizzava per quella difesa a tre che tanti successi aveva riscontrato a Udine con Alberto Zaccheroni in panchina e che era stata abbandonata durante l’annata precedente, con Hodgson e Ventura. Così, i bianconeri proponevano un 3-4-2-1 (a volte 3-4-1-2 o 3-5-2) che permetteva loro di essere più propositivi e pericolosi in fase di possesso palla. Una veste finale che fa ancora ricordare quella squadra.
Quali erano le caratteristiche della fase offensiva dell’Udinese nel triennio spallettiano, pur tenendo conto del fatto che la compagine bianconera visse tre stagioni di continua evoluzione?
Prima di parlare di principi e giocate occorre sottolineare come Spalletti si fece subito notare per una delle sue caratteristiche migliori come allenatore, vale a dire la capacità di leggere correttamente le caratteristiche dei giocatori a disposizione e saper intervenire (dove è il caso) per modificarne la posizione in campo.
Quello che ad esempio verrà fatto con i vari Pjanic o Brozovic (per citarne solo un paio) era accaduto anche ad Udine con Pizarro (trasformato in sontuoso play basso), Iaquinta e Jorgensen (diventati esterni offensivi).
L’abbassamento di Pizarro è stata intuizione che all’inizio ha lasciato perplessa la critica. Il punto era che il cileno non fosse un Pirlo (e non lo era in effetti) ma più un portatore di palla la cui tendenza a tenere troppo fra i piedi l’attrezzo avrebbe creato problemi alla costruzione bianconera.
Invece il giocatore di Valparaiso, grazie al suo controllo di palla e ai tempi di giocata, attirava la pressione avversaria (in un’epoca in cui questa scelta non era usuale come al giorno d’oggi) accettando anche l’uno contro uno, dal quale spesso usciva vincitore permettendo alla sua squadra di portare palla in zone più alte di campo superando il primo pressing.
Pizarro come interno di centrocampo.
L’utilizzo di Pizarro e del portiere De Sanctis era quindi fondamentale per bypassare la pressione avversaria, cosa che avveniva cercando per lo più il lato debole. L’inizio azione, pur non escludendo a priori la palla lunga, avveniva di solito a terra. Per questo Spalletti lasciava i tre riferimenti offensivi a ridosso della linea difensiva avversaria.
La maggior parte degli altri allenatori infatti non accettavano la parità numerica e questo lasciava l’Udinese con un uomo in più (7 contro 6) nella propria metà campo. A quel punto si cercava l’hombre libre per guadagnare il secondo campo.
Se Pizarro veniva schermato bene, le soluzioni erano due: palla sopra (con attacco diretto o sulla linea difensiva) o passaggio verso gli esterni.
In fase di rifinitura i movimenti di esterni di centrocampo e trequartisti erano legati a coppie con i tre riferimenti più avanzati ai quali veniva chiesto di effettuare contromovimenti per smarcarsi. A questi cinque giocatori (attaccanti più esterni di centrocampo) era demandata prevalentemente la fase di rifinitura e conclusione, con gli altri che restavano sotto palla.
Scambio di posizione fra laterale di centrocampo (Pieri) e esterno offensivo (Jankulovski).
Per quanto concerne la fase difensiva, Spalletti chiedeva ai suoi un pressing a varie altezze, a seconda dell’avversario da affrontare. Il concetto chiave era quello di evitare di concedere profondità.
L’Udinese in aggressione all’altezza della metà campo, stretta sul lato palla.
In generale, su attacco centrale la linea difendeva a cinque mentre, su palla esterna, era il mediano ad inserirsi per coprire lo scivolamento laterale del braccetto di parte.