Direttore e cofondatore de L’Ultimo Uomo, romano, classe 1981, autore del libro Cantona. Come è diventato leggenda, Daniele Manusia è certamente uno dei profili più interessanti del giornalismo italiano di ultima generazione, pur non essendo iscritto all’Albo dell’Ordine. Nonostante il fatto che questo sia un sito dedicato agli aspetti tattici del gioco del calcio non potevamo perdere l’occasione di intervistare chi ha saputo inventare, anche dal punto di vista propriamente tattico, un nuovo modo ed un nuovo linguaggio per raccontare il football.
Direttore, prima di tutto volevo chiederti come è nato il tuo approccio al giornalismo e alla scrittura.
Io ho studiato Storia dell’Arte all’università e penso di essere stato influenzato sia dal metodo prettamente storico, che ho affinato anche negli esami di storia, che dai numerosi esempi di analisi estetica o iconografica. Nel senso che quando ho iniziato a scrivere non ragionavo in termini di opinioni e racconto, editoriali e storytelling, ma pensavo ai fatti e alle interpretazioni. Per questo quando ho pensato che magari avevo un approccio leggermente diverso da quello mainstream, pur avendo ambizione a trattare temi mainstream (io volevo parlare fin da subito dei Messi, dei Ronaldo, dei Totti), era soprattutto per un approccio personale che non ricalcasse la retorica sportiva dei quotidiani. Per fortuna non ero il primo a pensare di poter trattare il calcio in quel modo e soprattutto non ero il solo. I molti compagni di viaggio che ho incontrato mi hanno influenzato più di quanto io abbia influenzato loro.
Come è nata l’idea de L’Ultimo Uomo?
Scrivevo una rubrica su VICE, quando lo dirigeva Timothy Small, adesso direttore di Esquire, che un giorno ha avuto l’idea di un sito di sport e cultura pop, sul modello del defunto Grantland. Io non avevo mai pensato di editare, cercare scrittori o coordinare un piano settimanale. Poi ci ho preso gusto.
Come è avvenuta la scelta della redazione de L’Ultimo Uomo e dei collaboratori esterni?
UU non ha una vera e propria redazione. Cioè, adesso ce l’ha, da un paio d’anni, ma noi consideriamo parte della redazione anche persone che sono a Milano, Palermo, Napoli, Arezzo. Per cui la parola redazione è fuorviante: ci sono delle persone che fanno altro per UU, oltre che scrivere e basta i propri pezzi e che lo fanno tutti i giorni della settimana, ma poi c’è quel gruppo di persone che partecipa alle riunioni via Skype, che si parla in chat, che si legge e commenta a vicenda, che si influenza e stimola, che è molto più ampio e si è formato nel tempo. Per affinità elettive diciamo, più che per vero e proprio scouting. Io ero un lettore di Emiliano Battazzi, o di Fabrizio Gabrielli – che aveva anche scritto un libro, si chiamava Sforbiciate – prima di chiedergli di scrivere per il “mio” progetto (che poi, appunto, fin dall’inizio non era solo mio ma anche di Tim, poi di Emanuele, di Dario, di Federico, di Marco eccetera eccetera). Non sono mai stato solo in questi anni e forse questa è la cosa più bella e più diversa dal mestiere di scrittore.
Componente fondamentale della rivista sono le analisi tattiche: come mai, secondo te, questi argomenti, pur avendo ricevuto recentemente un certo impulso (almeno a livello di web) sono ancora considerati di nicchia fra i grandi media?
Io in realtà vedo analisi tattiche in tv e sui principali quotidiani. Vedo che non c’è ancora una forma pop, che non sia la lezione alla lavagna o il pezzo specialistico, o di cronaca che però è anche analisi. Secondo me si ha un po’ di paura a parlare di concetti che magari non sono chiari a tutti, ma che tutti possono capire, allora lo si fa dal piedistallo con un’aria magari troppo seria. In realtà i concetti di cui si parla nelle analisi servono a guardare e capire le partite. Niente di più. Un’analisi parla di una partita, per come l’ha vista e giudicata (quando il giudizio entra nell’analisi, e per me non c’è niente di male) chi scrive. Ma se io voglio parlare di un film, in maniera il più completa possibile, dovrò sapere cos’è un carrello, cos’è un piano sequenza. Allo stesso modo come faccio a parlare di una partita del Liverpool, per farti un esempio, senza sapere cos’è il pressing, e che tipo di pressing fa il Liverpool? Che partita ho visto e come ne parlo? Infatti se leggi gli articoli di chi si rifiuta di aggiornarsi, e ce ne sono, sembra un complicatissimo esercizio di perifrasi, si sente la fatica che ha fatto l’autore nel mettere insieme pochi concetti generici e dargli una forma un po’ interessante.
Quale è la tua posizione sul dibattito riguardante la presenza femminile nel mondo del calcio? A tal proposito ricordo un tuo articolo a difesa di Wanda Nara durante la recente tempesta mediatica che l’ha colpita a seguito della vicenda riguardante il rapporto fra Mauro Icardi e l’Inter.
Se parli di calcio femminile penso che sia oggettivo che è uno dei tanti aspetti della vita delle donne in Italia e non solo che paga, oggi che a parole abbiamo la parità, secoli di discriminazioni. In particolare mi infastidisce molto la critica al gioco femminile, che non tiene mai conto dei decenni in cui le donne non potevano giocare e delle difficoltà che hanno ancora oggi a diventare professioniste. Se invece parli di Nara o, che ne so, Ilaria D’Amico, penso sia più evidente il maschilismo profondo del mondo del calcio. Forse è inevitabile, almeno per ora che le donne nel calcio sono poche. Spero che la crescita del movimento femminile porti anche al travaso di alcune professionalità da quel mondo a quello maschile.
L’Ultimo Uomo produce anche un podcast, La Riserva: quali sono le modalità di contatto col pubblico che preferisci (podcast o scrittura?) e perché?
Devo correggerti, La Riserva è un podcast indipendente, prodotto cioè da me, Emanuele e Simone. Adesso, da un paio di settimane, abbiamo creato un sito (www.fenomeno.eu) per dargli una casa, e stiamo lavorando anche a dei podcast nuovi. Ovviamente preferisco scrivere, penso sia quella “la mia cosa”. Ma mi piace molto il rapporto diretto con gli ascoltatori, che ti perdonano molto più dei lettori. C’è un rapporto inevitabilmente intimo, e poi se piaci piaci, ma se non piaci è difficile che qualcuno ti ascolti. Invece è fin troppo frequente che qualcuno magari ti legge solo per trovare una frase contro cui prendersela, per screditare il pezzo (contro la loro squadra magari, o contro una loro opinione). Però quando scrivi lo sai, non puoi pensare di essere inattaccabile ma in un certo senso stai costruendo un prodotto che poi ha una vita sua, anche se è solo un articoletto. Ma quando parlo no, quello sono io, prendere o lasciare. E penso che anche in quello alla fine premi essere generosi, competenti, complessi.
Recentemente L’Ultimo Uomo si è sviluppato verso nuove direzioni, passando dall’essere un media di nicchia con analisi, dati, a volte citazioni letterarie, ad un media con un pubblico di riferimento sempre più ampio. Ora gli autori della rivista sono famosi nel web e certamente non è estraneo a questo il fatto di essere entrati nel mondo Sky. Come si concilia l’inizio dell’avventura con L’Ultimo Uomo versione 2.0?
Famosi non saprei e non credo c’entri Sky. Molte persone ignorano o semplicemente non si prendono la briga di analizzare in che modo Sky influenza il nostro lavoro o il nostro pubblico. In sostanza per noi non è cambiato niente, ma davvero niente. Non c’è nessuno 2.0, noi facciamo il nostro lavoro nello stesso modo praticamente dal primo giorno. Poi certo noi cambiamo, ma cambieremmo anche se ci leggessero sempre le stesso 20 persone.
Quali sono le principali differenze fra L’Ultimo Uomo e gli articoli che proponete sulle pagine del sito di Sky?
Ancora una volta: nessuna differenza. Per Sky facciamo principalmente preview, che prima facevamo per UU ma che abbiamo scelto, insieme a Sky ovviamente, di pubblicare lì perché effettivamente svolgevano un servizio più impersonale che poteva essere più utile anche a chi non conosceva l’Ultimo Uomo. Poi raccogliamo le migliori giocate, un pezzo simile a quelli che facciamo su UU sui migliori gol, ad esempio. E anche gli altri pezzi che finiscono Sky non sono diversi a quelli per UU, la differenza sta solo nella decisione editoriale di pubblicarli lì, che come detto non spetta solo a noi perché il sito di Sky ha un suo direttore con cui noi collaboriamo.
Una delle caratteristiche del primo Ultimo Uomo era quella dei longform, tipologia di articoli che recentemente è andata un po’ in disuso…come mai questa scelta e puoi dirci se a breve questo genere di scritti torneranno sul sito?
Dipende che si intende per longform. Noi facciamo articoli che altri siti venderebbero come longoform, magari con un paio di illustrazioni in mezzo. I nostri longform erano prodotti particolari. Anzitutto erano sponsorizzati. Quindi c’era un budget che qualcuno andava a chiedere al cliente (un lavoro che ovviamente non posso fare io, anche se all’occasione ho dato una mano) e prima ci deve essere l’intenzione di farlo, come modello economico o come potenziale entrata. La società che aveva prima la proprietà del sito, del dominio, faceva queste cose, la proprietà di adesso no (per ora). Secondo poi, erano prodotti curati dal punto di vista di grafica e programmazione, che richiederebbero uno sforzo aggiuntivo, anche economico, che ti rimanda al punto primo: la necessità di un budget. Sinceramente continuo a pensare che siano bei prodotti, soprattutto per il lettore che li percepisce in maniera “diversa”, un po’ come se leggesse su carta invece che sul cellulare, e magari ne rifaremo in futuro. Dal punto di vista editoriale però non è detto che non si possano fare articoli altrettanto belli o lunghi, magari senza chiamarli longform.
Come vedi lo stato attuale del giornalismo sportivo italiano?
Lo vedo male e da lontano, come il resto del giornalismo italiano. Male perché le preoccupazioni economiche hanno eroso, mi pare, le motivazioni di molti e si sono barattati dei valori impliciti per pochi clic. Però io so poco in realtà dei compromessi e delle difficoltà di chi fa questo lavoro ogni giorno in redazioni magari grandissimi e pesantissime. Non so come può evolversi la situazione, spero che si troveranno nuove forme per rendere sostenibile un mestiere che non può e non deve essere subordinato agli incassi.
Infine, una domanda più centrata su di te: cosa c’è nel futuro di Daniele Manusia e dove ti vedi fra dieci anni?
Guarda ho appena avuto una figlia, il mio futuro è qui. Tra dieci anni mi vedo che la vado a prendere a scuola e mi faccio raccontare cose. Spero di fare ancora un lavoro che amo, ancora con persone che stimo e a cui voglio anche un po’ bene.