Come eravamo: la Roma di Sven-Göran Eriksson

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Di Sven-Göran Eriksson si è tornati a parlare nelle scorse settimane per un fatto drammatico. Il popolare tecnico svedese ha infatti annunciato pubblicamente di soffrire per un tumore incurabile al pancreas, con i medici che gli hanno dato al massimo un anno di vita.

Una notizia sconvolgente che Svennis (questo il suo soprannome) ha voluto comunicare al mondo con la consueta compostezza e in modo molto pacato. Nelle ultime stagioni Eriksson si è trovato ad allenare in Oriente (ultimo lavoro cinque anni fa come commissario tecnico della nazionale delle Filippine), dopo una vita spesa nel calcio più importante. Così i più giovani riescono con la loro memoria ad arrivare all’Eriksson tecnico dell’Inghilterra o della Lazio.

Ma Eriksson è stato molto più di questo. Stiamo infatti parlando di un allenatore che, oltre che uno scudetto, una coppa delle Coppe e una Supercoppa europea con i biancocelesti ha vinto anche un campionato svedese e una coppa Uefa con l’IFK Göteborg, quattro coppe Italia fra Sampdoria, Roma e Lazio) e tre campionati portoghesi con il Benfica, club quest’ultimo condotto anche fino ad una finale di coppa dei Campioni (persa nel 1990 contro il Milan di Arrigo Sacchi).

Soprattutto, Eriksson in carriera è stato un allenatore moderno, all’avanguardia per i suoi tempi. Fu così che arrivò in Italia, quando il torneo nostrano era ancora il migliore del mondo e poteva permettersi di strappare alla concorrenza estera non solo i migliori giocatori ma anche quelli allenatori che, pur dovendo essere camuffati sotto la dicitura direttore tecnico per poter allenare (in Italia non erano infatti ammessi ufficialmente i tecnici stranieri), potevano contribuire con idee nuove alo sviluppo del gioco. 

E proprio perché colpito positivamente dal gioco Svennis che Dino Viola si convinse ad affidare a Eriksson il difficilissimo compito di raccogliere la pesante eredità di Nils Liedholm, altro svedese ma di casa in Italia da anni e che aveva riportato a Roma lo scudetto quarant’anni dopo il primo.

Viola aveva avuto modo di conoscere il suo futuro allenatore in occasione del doppio confronto di coppa Uefa del 1982-83, quando il Benfica guidato dallo svedese riuscì ad eliminare la Roma nei quarti di finale del torneo.

Così, al momento di sostituire Liedholm per la stagione 1984-85 l’Ingegnere scelse proprio Eriksson. Anche se l’esperienza romana (la prima) di Eriksson è ricordata da molti più che altro per lo scudetto sfuggito di mano ai giallorossi sul finire della stagione 1985-86, a causa di una improvvida e inaspettata sconfitta interna contro un Lecce già retrocesso, quella Roma è stata uno degli esempi più moderni di un certo tipo di zona.

La Roma che Eriksson ereditò dal suo connazionale era una squadra a fine ciclo. Un ciclo d’oro, che aveva come detto portato nella capitale il tricolore e che si era chiuso con la sconfitta all’Olimpico subita ad opera del Liverpool nella finale di coppa dei Campioni del maggio 1984. Il simbolo di quel cambiamento fu il capitano giallorosso, Agostino Di Bartolomei, che lasciò la squadra per seguire il suo mentore Liedholm al Milan.

L’estate 1984 inoltre per i tifosi romanisti fu contrassegnata non soltanto da People From Ibiza di del biondo Sandy Marton (una creatura di Claudio Cecchetto) ma altresì da un tormentone ben più sentito, vale a dire quello riguardante Paulo Roberto Falcão. L’ottavo Re di Roma, colui che fece il gran rifiuto (rinunciando a battere un rigore nella serie con il Liverpool), era infatti ai ferri corti con la società, indispettita anche dal comportamento del brasiliano in occasione appunto della finale.

Detto questo, Falcão era anche un giocatore fuoriclasse sì, ma che stonava con il calcio proposto da Eriksson. Il brasiliano infatti era uno degli esponenti di spicco di quella scuola verdeoro esaltata da Telê Santana ai Mondiali di Spagna del 1982 e fatta di laborioso possesso palla seguito da improvvise accelerazioni in avanti.

Il gioco di Eriksson invece era di stampo europeo: una zona pressing all’insegna dell’intensità e della velocità continua. Una zona veloce insomma, in contrasto anche con quella più ragionata proposta da Liedholm.

Per questo motivo Eriksson non tardò ad entrare in rotta di collisione con Bruno Conti e Roberto Pruzzo, due degli artefici dello scudetto del 1983 ma ormai nella seconda parte della carriera e alla lunga non in grado di soddisfare le richieste atletiche dello svedese nel corso della stagione.

A causa di tutti questi problemi, la prima Roma di Eriksson faticò a decollare all’inizio, prima che il tecnico riuscisse cioè a far passare il proprio messaggio tecnico. Quando però ci riuscì (a partire più o meno dal girone di ritorno del suo primo campionato con i giallorossi) la squadra cominciò a sfodera belle prestazioni.

Ma come giocava la Roma di Eriksson? Dal punto di vista tattico stiamo parlando di un 4-4-2 molto svedese, un sistema di gioco che Eriksson aveva imparato in Svezia dal suo mentore Tord Grip. Quest’ultimo è stato un allenatore a sua volta ispirato da un altro insegnante di calcio, che risponde al nome di Roy Hodgson. L’inglese, poi visto anche in Italia sulle panchine di Inter e Udinese, è stato infatti uno degli allenatori che ha rivoluzionato il football svedese negli anni Settanta introducendo il 4-4-2 a zona con pressing e fuorigioco nel Paese scandinavo.

La Roma di Eriksson si poggia quindi su una linea che difende alta, con i vari Nela, Righetti, Bonetti e Oddi (e Maldera il primo anno) davanti a Tancredi.    

Il centrocampo poteva contare sul sempre verde Toninho Cerezo e sul giovane Giuseppe Giannini, in rampa di lancio. Questi si affiancava Carlo Ancelotti, rientrato da infortunio a ottobre. L’anno dopo poi a completare la batteria di centrocampisti arriveranno altri due pezzi pregiati della Roma erikssoniana, vale a dire Manuel Gerolin e l’ex juventino Zbigniew Boniek.

In attacco, mentre vanno declinando Pruzzo e Francesco Graziani emergono i giovani Maurizio Iorio e Sandro Tovalieri, prodotto del vivaio che esordirà in giallorosso nel 1985.

Rispetto alle formazioni dell’epoca, la Roma di Erkisson era più attiva in fase offensiva, attaccando con molti uomini. In particolare in contropiede, quando la squadra ribaltava velocemente il campo accompagnando il portatore in avanti.

Un contropiede filminante della Roma di Eriksson nell’immagine prodotta con VideoMatch Presenter di Sics.

Proprio la spinta di chi si aggiungeva dalle retrovie era una caratteristica di quella squadra. Questo è vero sia per le folate in avanti Boniek (discese anche palla al piede nelle quali il polacco era maestro) ma anche per le sovrapposizioni di Nela. Il popolare Sebino infatti era dotato di una forza atletica straordinaria, che lo sorreggeva lungo tutto l’arco della partita e gli consentiva spesso di aggiungersi in avanti in zone nelle quali poteva sfruttare il suo eccezionale sinistro.

Nela fra l’altro, pur essendo mancino, poteva tranquillamente giocare anche sulla fascia destra della difesa.

Una squadra all’avanguardia per i tempi, con un impatto importante nel panorama calcistico italiano, rivoluzionario, condito da prestazioni importanti e spettacolari soprattutto nel girone di ritorno del torneo 1984-85.

In generale nei due campionati con Eriksson alla Roma mancò l’equilibrio. La prima stagione, la squadra infatti chiuse come quarta difesa meno battuta del campionato, ma l’attacco fu soltanto ottavo per reti segnate.

La stagione seguente, 1985-86, i giallorossi registrarono il miglior attacco della Serie A con 51 reti segnate, 9 in più della Juventus campione, subendo però ben 27 gol (appena l’ottava difesa).

Eriksson non è stato un innovatore solo tatticamente, ma anche dal punto di vista metodologico. Ecco infatti come lo ha rammentato Carlo Ancelotti nella sua biografia Preferisco la coppa.

‹‹Tre muuu tre. Nei primi tempi qualcuno gli rispondeva “nove”, poi abbiamo capito che voleva dire tre contro tre, non “tre per tre”. Facevamo molte partitine. Tre muuuu tre e poi quattro muuuu quattro. Eriksson ha portato una metodologia di lavoro diversa, era molto preparato, rispettoso, una persona decisamente buona e disponibile verso i giocatori››.

L’Eriksson di Firenze fu ancora all’avanguardia, mentre divenne pragmatico nell’esperienza successiva con la Lazio. Detto questo, come spesso accade fu la prima versione (quella romanista) a rubare maggiormente l’occhio, anche se non è risultata la più vincente.

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