La Norvegia di Erling Haaland è più forte di quella di suo padre?

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Cinque gol e due assist nell’11-1 sulla Moldavia, tripletta nel 5-0 contro Israele. Erling Haaladn sta guidando la Norvegia (6 vittorie in altrettante gare di qualificazione) a quella che sarebbe la quarta apparizione ad una fase finale della Coppa del Mondo per la nazionale scandinava, la prima dal 1998.

E proprio con quella squadra, che già si era fatta notare sul palcoscenico internazionale quattro anni prima (curiosamente proprio negli Stati Uniti, là dove si disputerà anche buona parte del Mondiale del prossimo anno), sono iniziati i paragoni. Più forte la Norvegia attuale, che ha nell’attaccante del Manchester City la sua punta di diamante, oppure quella che fece soffrire l’Italia di Arrigo Sacchi a USA 94 (fino al provvidenziale gol di Dino Baggio) e che, nel 1998 in Francia, sconfisse i futuri campioni del Brasile?

Difficile dirlo. Il calcio è cambiato molto da quei tempi. Tuttavia, un paragone lo si può provare a fare. Sicuramente a mutare è il tipo di gioco. Anche allora la Norvegia, allenata da Egil Drillo Olsen, poggiava su un attaccante centrale d’impatto, anche se non del livello dell’Haaland attuale. Stiamo parlando di Tore André Flo, punta del Chelsea e rifermento più avanzato della Nazionale norvegese ai Mondiali francesi.

Come Haaland, anche Flo non aveva nel colpo di testa il pezzo forte del proprio repertorio, prediligendo invece l’attacco alla profondità. Quattro anni prima, contro l’Italia al Giants Stadium di East Rutherford (New York), in una formazione che annoverava fra le proprie fila anche Alf-Inge Haland (difensore e padre di Erling), il peso del reparto offensivo ricadeva principalmente su Jan Åge Fjørtoft, affiancato da Jostein Flo.

Quella Norvegia di Olsen era sacchianamente disposta secondo un classico 4-4-2 a zona, che prevedeva la palla lunga come arma prediletta per imbastire la manovra offensiva. La Norvegia nelle sue due ultime apparizioni ai Mondiali era compagine preparata atleticamente e ben strutturata fisicamente e poteva contare nelle due rose su diversi giocatori che militavano in Premier.

Certo, quella di allora non era la Premier attuale (il campionato più importante del Mondo), ma in un calcio ancora non globalizzato era comunque interessante notare come il già citato Haaland sr. (Nottingham Forest) o i vari Stig Inge Bjørnebye (Liverpool), Henning Berg (Blackburn Rovers prima e Liverpool poi) e Ole Gunnar Solskjær (Manchester United) militassero in formazioni inglesi.

La squadra di Olsen non era però soltanto forza e muscoli. Accanto a questi uomini ce n’erano infatti altri che si segnalavano per le loro qualità tecniche e la loro abilità nell’uno contro uno. In particolare Erik Mykland, Øyvind Leonhardsen e, soprattutto, Lars Bohinen. Quest’ultimo è il padre di quell’ Emil Bohinen che gioca oggi in Italia. Diversamente dal figlio (un centrocampista ordinato) Lars era un giocatore di grande inventiva, in grado di infiammare il pubblico con giocate e gol spettacolari.

Dietro poi, nelle due competizioni, a reggere la retroguardia c’erano giocatori solidi come Kjetil Rekdal, Rune Bratseth (colonna del Werder Brema), Dan Eggen o Erik Hoftun.

Anche la Norvegia di oggi è piena di calciatori importanti che militano all’estero come Oscar Bobb (Manchester City), Antonio Nusa (RB Lipsia) e Alexander Sørloth (Atlético Madrid). Proprio calciatori quali Nusa o Martin Ødegaard (centrocampista dell’Arsenal) danno alla manovra della Norvegia una fluidità e una qualità impensabile trent’anni fa.

Ståle Solbakken, il cittì norvegese (fra i convocati a Francia 98), tende a disporre la squadra con un 4-3-3 o 4-4-2 di partenza. All’interno di questa struttura, l’obiettivo numero uno è ovviamente quello di servire in verticale o in ara di rigore Haaland.

Al di là del modulo, la differenza più rilevante fra l’attuale Norvegia e quella della seconda metà degli anni Novanta è che questa vuole il pallone per dominare tramite il possesso mentre la squadra di Olsen preferiva difendersi e ripartire.

Una situazione di costruzione della Norvegia nella gara con Israele.

I Løvene (Leoni) del 1994 e 1998 essenzialmente cercavano di essere aggressivi e di attaccare in campo aperto, facendo come detto della palla lunga la loro strategia migliore. L’undici di Solbakken è invece più pronto a palleggiare, anche perché spesso si trova davanti blocchi bassi.

Ad oggi però questa Norvegia ha ancora molto da dimostrare prima di poter essere paragonata a quella che si ritrovò al secondo posto nel ranking FIFA del 1993 (dietro al solo Brasile) e arrivò agli ottavi di finale nel 1998 (prima di venire eliminata da un gol di Christian Vieri).

La Norvegia di Solbakken, nelle 49 partite disputate con l’attuale allenatore, ha affrontato solo cinque volte avversari di un certo spessore: una volta ha vinto (contro l’Italia) mentre nelle altre quattro circostanze (due contro l’Olanda e altrettante con la Spagna) sono arrivate tre sconfitte e un pareggio.

La vera riprova per capire dove collocare l’attuale nazionale norvegese rispetto a quella di Olsen (nella storia del calcio locale) l’avremo soltanto a giugno prossimo negli Stati Uniti.

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