De Italiano

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Santi che pagano il mio pranzo non ce n’è
Sulle panchine in Piazza Grande
Ma quando ho fame di mercanti come me qui non ce n’è
Dormo sull’erba e ho molti amici intorno a me
Gli innamorati in Piazza Grande
Dei loro guai, dei loro amori tutto so, sbagliati e no

Lucio Dalla

Circa 30.000 bolognesi presenti allo Stadio Olimpico (fra i quali Cesare Cremonini e Gianni Morandi), col resto della città felsinea divisa fra maxischermi, locali o semplici abitazioni private. Una città in attesa all’inizio, una città in festa dopo la finale che ha riconsegnato al Bologna la coppa Italia, cinquantuno anni dopo l’ultima volta.

Un risultato eccezionale per un club non più abituato a vincere. Quello del 1974 è stata infatti l’ultimo trofeo conquistato dai rossoblù (a meno di non voler considerare tale l’Intertoto ottenuto nel 1998) prima di quello di ieri sera. Lo squadrone che tremare il mondo fa di Árpád Weisz e Hermann Felsner, capace di vincere quattro scudetti fra il 1936 e il 1941, è soltanto uno sbiadito ricordo, così come lo è la squadra che vinse i campionati del 1925 e quello del 1929.

Il grande Bologna di Fulvio Bernardini, che giocava come si gioca in Paradiso, campione d’Italia nel 1964 dopo l’unico spareggio (contro l’Inter di Helenio Herrera) mai giocato in Italia per stabilire la squadra vincitrice del tricolore, resta anch’essa un mito lontano nel tempo, da richiamare alla memoria alla bisogna (come nella splendida coreografia esibita dalla Curva Andrea Costa in trasferta a Roma).

Per il resto, la storia recente (e per recente intendiamo gli ultimi trentacinque anni) si è dipanata fra alti (il Bologna di Carletto Mazzone e quello di Renzo Ulivieri) e bassi (gli anni della Serie C e i saliscendi fra A e B) fino all’avvento della proprietà di Joey Saputo. Da quando il tycoon italo-canadese ha preso in mano le redini della società (2014) il Bologna ha intrapreso la strada virtuosa di una costante crescita.

Un processo che è culminato, lo scorso anno, con la conquista, a sorpresa, di un posto in Champions League. Quest’anno il compito più arduo, quello di ripetersi. Impresa non facile dato che i principali protagonisti di quella storica annata erano partiti per altri lidi. Era andato via Thiago Motta, poi ritrovatosi a mal partito alla Juventus come accadde, anni prima di lui, a quel Gigi Maifredi anch’egli profeta del bel gioco sotto le Due Torri salvo poi di arenarsi nei pressi della Mole. A lasciare la scorsa estate sono stati anche Joshua Zirkzee e Riccardo Calafiori, altri elementi chiave del Bologna dell’anno scorso.

Nonostante queste partenze, Giovanni Sartori e Marco Di Vaio sono riusciti a costruire una formazione competitiva. Soprattutto, i due dirigenti hanno azzeccato la scelta del sostituito di Motta, individuato in Vincenzo Italiano. È ancora presto per dire quanto sia il merito del tecnico e quanto quello della società in questi risultati. Un esercizio di stile forse, ma che non può non essere fatto ricordando altri tempi in cui erano i club a fare le fortune degli allenatori (come nel Catania di Pietro Lo Monaco). D’altronde si tratta di una vexata quaestio: la vittoria di un Gran Premio è merito della macchina o del pilota?

Resta comunque la bellezza del veder giocare questo Bologna. Ok, quello di Italiano non è ‹‹un calcio alla Guardiola, alla Arteta›› come entusiasticamente dichiarato dall’attaccante del Lens M’Bala Nzola (suo ex calciatore con le maglie di Trapani, Spezia e Fiorentina) in una intervista a L’Équipe, ma resta sicuramente una proposta europea, interessante, con tratti peculiari nel panorama tattico italiano.

Reduce dalle tre stagioni di Firenze (con tre finali conquistate e perse fra coppa Italia e Conference League), Italiano rappresenta la classica figura del tecnico divisivo. Le sue vedute tattiche sono spesso state oggetto di critica da parte di stampa e tifosi, così come è diventato proverbiale (nonché oggetto di meme per l’assonanza fra il suo cognome e l’aggettivo iraniano) quello che molti hanno definito come una sorta di atteggiamento talebano, nel senso di rigido ed estremista.

E questo soprattutto per due aspetti chiave che connotano il gioco di Italiano: il pressing feroce uomo su uomo, da applicarsi contro chiunque e la linea difensiva altissima, con i due centrali di difesa chiamati a coprire molto campo alle loro spalle.

Un atteggiamento coraggioso, financo spregiudicato, zemaniano per certi versi. Ma un atteggiamento che ha ampiamente ripagato il tecnico e la squadra. E questo nonostante le perplessità di certa stampa che, così come avviene per il famigerato fuorigioco del Barcellona di Hansi Flick, non riesce a concepire la tattica come un qualcosa di diverso dall’italico 5-3-2 fatto di blocco basso e contropiede.

L’intensità che il Bologna riesce a sprigionare con continuità all’interno della stessa gara e in tutte le partite (anche in autunno, durante il periodo del doppio impegno campionato e Champions) è segno dell’ottimo lavoro svolto da Italiano e dal suo staff.

Eppure il Bologna di Italiano non è soltanto fase difensiva. Anche in attacco ci sono dei pattern evidenti, visti nuovamente nella finale vinta col Milan. Uno di questi è la ricerca dell’uno contro uno da parte degli esterni offensivi. Cosa che i rossoblù cercano di trovare sia sul lato sinistro, dove solitamente gravitano lo svizzero Dan Ndoye o l’argentino Benjamín Domínguez, che su quello destro, dove sovente il Bologna cerca di isolare (magari dopo un cambio di campo) Riccardo Orsolini.

Quest’anno poi, cosa che non gli era capitata in riva all’Arno, Italiano ha avuto a disposizione due centravanti in grado di sfruttare il volume di gioco proposto dalla sua squadra e di poter catturare anche quelle rifiniture che, as usual, nelle sue squadre arrivano prevalentemente tramite palle esterne. In Santiago Castro e Thijs Dallinga infatti il Bologna ha due attaccanti forti nel gioco aereo, in grado di difendere palla per far salire la squadra e, nel caso dell’argentino, anche autosufficienti.

Inoltre, la stessa fase offensiva (come quella difensiva) ha nell’intensità la sua caratteristica principale. Il Bologna gioca per andare nell’altra metà campo il prima possibile. Una volta arrivati negli ultimi trenta metri di campo, qualora la situazione lo veda affrontare una difesa bassa, ecco che la squadra emiliana può muovere palla con più raziocinio, ma sempre allo scopo di trovare uno spazio attraverso cui far arrivare la sfera dentro l’area avversaria.

Con queste armi Italiano si è guadagnato le redini del Bologna e ha riportato un trofeo sotto il cielo de la Dotta. E la festa può cominciare in Piazza Grande.

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